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Foibe, un libro verità sui difficili rapporti italo-slavi

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L’antifascismo non c’entrava nulla, perché i conflitti tra italiani e slavi esistevano da prima. Pierluigi Romeo di Colloredo Mels fa il punto nel suo recente “Confine orientale” sulla questione adriatica e smantella i luoghi comuni di certa storiografia.

È uscito in questo 2020 il saggio del professor Pierluigi Romeo di Colloredo Mels, Confine orientale. Italiani e slavi sull’Amarissimo dal Risorgimento all’Esodo, (2020 Massa, Eclettica Edizioni).

L’autore è nato a Roma nel 1966, discendente dal famoso e nobilissimo casato dei Colloredo. È un intellettuale eclettico e poliedrico, che unisce le competenze dell’archeologo, dell’egittologo, dell’antropologo culturale e dello storico militare. Docente di Egittologia presso l’Università Upter di Roma, archeologo di lunga e consolidata pratica in molti scavi, relatore in diversi convegni internazionali, è autore di numerosi studi di storia delle religioni antiche, di antropologia culturale, di egittologia, pubblicati anche sulla Encyclopaedia Britannica.

La copertina di “Confine Orientale”

È inoltre anche un apprezzato storico militare, su cui ha pubblicato parecchi studi: in particolare, egli è uno dei principali esperti della storia della Milizia fascista. Il suo curriculum è assai più lungo e ricco di quanto dicano queste poche righe (Colloredo è fra l’altro conoscitore di dieci lingue, fra antiche e moderne) e garantisce la preparazione e l’esperienza dello studioso, un professionista noto e stimato a livello internazionale.

Confine orientale si incentra sulla «questione delle relazioni tra Regno d’Italia e Jugoslavia, a partire dalla denazionalizzazione in Dalmazia, sino alla guerra partigiana e alla sua repressione da parte degli italiani, giungendo sino alla questione delle foibe e dei campi di concentramento jugoslavi, dell’occupazione di Trieste e della Strage di Vergarolla nel 1946» (Ibidem, p. 11), inserendo tali vicende in un quadro temporale allargato che va dal 1848 al 1954.

Un’attenzione particolare è posta alla confutazione di una lettura storiografica, predominante fino a tempi recenti che il prof Colloredo così presenta: «Pur senza negare apertamente l’esistenza delle foibe, le giustificano con le violenze italiane contro gli sloveni prima e con le rappresaglie durante l’occupazione dei territori balcanici nella Seconda Guerra Mondiale poi, riducendone comunque in modo grottesco l’entità» (Ibidem, p. 20).

Pierluigi Romeo di Colloredo Mels

Il capitolo introduttivo dell’opera, intitolato ironicamente Capitane dell’Ozna e oggetti narrativi non identificati: gli infoibatori della storia, è una presentazione dell’ambiente politico di coloro che contestano l’interpretazione delle foibe come pulizia etnica, che è segnato da una militanza antifascista e dall’apologetica verso la Jugoslavia di Tito e i partigiani. Colloredo confuta inoltre alcuni dei più evidenti errori storici sulle vicende del confine orientale, sovente davvero clamorosi.

Il primo riguarda la Guardia di Finanza, che fu creata il 1 ottobre 1774 dal re di Sardegna Vittorio Amedeo II e divenne nel 1881 un corpo di polizia finanziaria, e non fu fondata nella seconda guerra mondiale per combattere contro i partigiani comunisti.

Il secondo riguarda le attività fasciste: i membri della Milizia accusati dalla Jugoslavia dopo il conflitto di presunti crimini di guerra, su richiesta dei comandanti delle brigate partigiane, furono in tutto 8 (otto).

Altre perle sono relative a dichiarazioni attribuite a Benito Mussolini, una espressa in Dalmazia nel 1943 ai militari della Seconda Armata, «So che a casa vostra siete dei buoni padri di famiglia, ma qui voi non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori», che non è mai stata pronunciata perché Mussolini non si trovata in Dalmazia nel ’43; è parimenti inesistente, ossia apocrifa, un’altra frase attribuita al Duce, che avrebbe parlato di «una razza come la slava, inferiore e barbara».

Una foto d’epoca di Mussolini

Infine, le condanne a morte del tribunale militare di Lubiana furono 83 e non più di 8.000.

Questi e molti altri errori sono smontati, ad uno ad uno, sempre visionando le fonti primarie.

I capitoli successivi, Risorgimento e irredentismi (1866-1914) e Dall’Austria al fascismo (1866-1922), pongono le premesse storiche al cuore dell’opera, dimostrando sia che le popolazioni italiane al confine orientale erano in maggioranza irredentiste, sia che subirono ad opera dell’Austria e dei nazionalisti slavi misure persecutorie volte a snazionalizzarle, ad esempio attuando una slavizzazione forzata dei cognomi e senza rifuggire da frequenti e gravi atti di violenza politica e terroristica.

Fu l’imperatore Francesco Giuseppe in persona ad ordinare la «germanizzazione e la slavizzazione» del Trentino, della Venezia Giulia, della Dalmazia, il 12 novembre del 1866 al suo consiglio dei ministri.

L’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe

Non esistette inoltre soluzione di continuità fra l’ostilità italofoba del nazionalismo slavo negli anni 1866-1918 e quella dei decenni successivi: ad esempio, nel periodo fra le due guerre furono sistematicamente distrutti i leoni marciani in Dalmazia, eredità della lunghissima presenza di Venezia in quella regione. Contrariamente ad un luogo comune caro alla pubblicistica dell’antifascismo militante, gli scontri interetnici fra italiani e slavi non iniziarono con il fascismo e neppure nel 1918 con la fine dell’Austria, ma già da metà Ottocento e videro gli italiani aggrediti e perseguitati. Cade così, alla base, la mitologia della reazione slava alla supposta persecuzione italiana.

Questo capitolo ed il successivo, Terrorismo slavo e irredentismo ustasha, ricompongono la storia dei rapporti fra italiani e slavi nel periodo interbellico. Colloredo incalza particolarmente su tre punti: l’attività di un sanguinoso terrorismo slavo in Venezia Giulia, appoggiato dalla Jugoslavia; l’adesione di molti sloveni e croati al fascismo italiano, con la formazione di intere squadre di miliziani composte da slavi; il sostegno dato dall’Italia ai nazionalisti croati ustasha.

L’affresco prova che la politica fascista sia verso le minoranze allogene, sia verso la Jugoslavia fu abbastanza conciliativa, nonostante l’aggressività ostile dimostrata da organizzazioni terroristiche manovrate da Belgrado.

Il maresciallo Tito

I sette capitoli seguenti affrontano gli eventi del conflitto italo-jugoslavo, delle foibe e del dopoguerra, fra di loro intrecciati. Il prof Colloredo riconosce che vi furono sporadicamente crimini di guerra italiani, ma che furono appunto eccezioni nell’operato del Regio Esercito, che si comportò in maniera complessivamente conforme alle leggi di guerra.

Sui 718.000 morti slavi nella guerra balcanica dovuti a forze straniere, soltanto 5.000 furono provocati da italiani. Inoltre l’esercito italiano svolse un ruolo di protezione dei civili slavi ed ebrei sia dalle violenze dei partigiani, di gran lunga più gravi, sia dai tedeschi. Sarebbe sbagliato poi supporre che la maggioranza degli slavi fosse dalla parte dei partigiani di Tito, perché il numero di combattenti jugoslavi alleati delle forze dell’Asse fu di circa 700.000.

Furono invece i partigiani comunisti a violare sistematicamente le leggi di guerra, con uccisioni di prigionieri, l’impiego frequentissimo della tortura, il terrorismo contro i civili. Mentre i crimini di guerra degli italiani furono in proporzione assai pochi e frutto di iniziative individuali o di piccoli reparti, i titini si servirono in modo metodico di pratiche belliche proibite dalle convenzioni internazionali. Anche a conflitto finito, Tito e la sua polizia segreta, l’Ozna, si accanirono sia contro gli slavi anticomunisti, sterminandone a centinaia di migliaia, sia contro gli abitanti non-slavi delle terre invase, come albanesi, ungheresi, tedeschi ed appunto italiani. Il numero di morti fatto dal regime jugoslavo è calcolato in 1.172.000, pertanto enormemente superiore ai 5.000 attribuibili agli militari italiani in Jugoslavia.

Una squadra di ustascia croati

Le foibe sono parte quindi del processo di pulizia etnica e politica voluto dal dittatore jugoslavo, che si proponeva di sterminare o scacciare coloro che non erano jugoslavi e comunisti. Gli italiani che furono gettati dai partigiani nelle cavità, deportati nei gulag od uccisi in altro modo solitamente non erano fascisti ed anzi fra i principali bersagli vi furono antifascisti, inclusi numerosi comunisti fedeli a Stalin, che furono deportati da Tito in campi di concentramento dopo la sua rottura con l’Urss.

L’autore si sofferma anche sulla strage di Vergarolla del 1946, il più sanguinoso atto terroristico della storia dell’Italia repubblicana con oltre 100 morti, che fu un attentato organizzato dai titini per spingere gli abitanti di Pola a fuggire. Chiude il libro, prima delle conclusioni finali, la descrizione del ritorno di Trieste all’Italia fra l’entusiasmo della popolazione.

Confine orientale. Italiani e slavi sull’Amarissimo dal Risorgimento all’Esodo merita di essere letto, perché affronta e demolisce ad uno ad uno, con argomentazioni sorrette da una puntigliosa documentazione e da corretto metodo storico, tutte le ipotesi infondate di coloro che hanno preteso ricondurre le foibe ad una presunta reazione degli slavi contro presunte violenze fasciste.

Ricerche in una foiba carsica

L’originalità dello studio non consiste nel portare fonti e materiale nuovo, bensì nella capacità di ricostruire un quadro organico dei fatti, riordinando vicende complesse e discusse, sciogliendo con acume i punti che alcuni vorrebbero oscuri o controversi, collegando gli eventi in una prospettiva allargata cronologicamente e che travalica le rigide distinzioni temporali abitualmente impiegate nello studio delle vicende del confine orientale.

Le conclusioni che si possono ricavare dalla lettura del saggio di Colloredo sono inequivocabili: le foibe e l’esodo sono state un’operazione di pulizia etnica ed ideologica assieme voluta dal regime jugoslavo, attuazione di un progetto di conquista e cacciata degli italiani risalente sino alle origini del nazionalismo jugoslavo nel secolo XIX ed incarnatosi in una dittatura genocida come quella del comunista Tito, e non una fantomatica vendetta contro supposti fascisti, ciò che un’area politica nostalgica ha cercato di far credere a lungo al fine di giustificare l’accaduto.

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Comments

There are 9 comments for this article
  1. Come avevo scritto, avevo consultato nella Bublioteca civica di Trieste il quotidiano polese “L’Azione” che riporta il testo del discorso di Mussolini al Politeama Ciscutti. Ora non vivo più a Trieste, e le biblioteche sono difficilmente fruibili cusa Covid. Se volete continuare a credere alla versione di Colloredo, fate pure.

    • Egregio Magno,
      Abbiamo contattato Colloredo per intervistarlo e abbiamo colto l’occasione per chiedergli lumi sul famigerato discorso di Mussolini.
      Lui ci ha dichiarato, al riguardo, quanto segue:
      1) di aver consultato il discorso di cui Lei parla, nel tomo XXXV dell’Opera Omnia di Mussolini, dedicato ad “Aggiunte, scritti e discorsi, lettere, telegrammi e messaggi”,
      Curato da E. e D. Susmel. L’articolo in questione è pubblicato alle pagine 67-70 del libro in questione;
      2) di aver appurato che questo discorso è ripreso dalla “Storia della rivoluzione fascista” di Chiurco, citato nell’Opera Omnia;
      3) tuttavia, Colloredo reputa apocrifo questo discorso per due motivi:
      a) Chiurco, a suo giudizio, non sarebbe fonte del tutto attendibile perché abbondantemente rimaneggiata (e probabilmente questo è il motivo per cui questo discorso sarebbe finito in un tomo dell’Opera Omnia mussoliniana che è chiaramente un’appendice);
      b) non vi sarebbero fonti coeve che menzionino questo discorso;
      c) sarebbe in netto contrasto con la politica balcanica e nei confronti delle minoranze slave effettivamente seguita da Mussolini fino all’entrata in guerra dell’Italia.
      Dunque, lei cita il quotidiano L’Azione, che è senz’altro fonte coeva. Ma, è lecito chiedersi, basta questo? Vi sono altre fonti coeve che confermino che Mussolini abbia davvero pronunciato quel discorso?
      Siamo sicuri che basti davvero una fonte, che Lei cita senza tuttavia fornirla?
      Grazie per l’attenzione
      Saverio Paletta e Marco Vigna

  2. Mi scuso per l’errore di battitura. Ovviamente il titolo del libro di Chiurco è “Storia della rivoluzione fascista”.

  3. Gentile dottor Palertta, posso confermarle che il testo del “Discorso di Pola” qui discusso è in effetti pubblicato in B. Mussolini, Opera Omnia, Aggiunte: scritti e discorsi, lettere, telegrammi, messaggi, cronologia essenziale dal 18 settembre 1943 al 28 aprile 1945, Firenze, La Fenice 1951, pp. 67 e sgg., oltre che in G.A. Chiurco, Storia della rivoluziine fascista, vol. II, Firenze, Vallecchi 1919, pp. 267-271. Spero che queste indicazioni siano sufficienti per provare che il discorso in questione in effetti, esiste. Evidentemente Colloredo si è fidato troppo di se stesso.
    Cordialità.

  4. Gentile dottor Paletta, secondo un vecchio appunto il discorso di Pola dovrebbe essere pubblicato nel volume 35 dell’Opera Omnia mussoliniana, con riferimento alla “Storia della rivoluzione fascista” di Chiurco, vol. II, pp. 268-269. Purtroppo data l’attuale situazione delle biblioteche pubbliche non sono in grado di controllare personalmente e in tempi brevi. Spero che questa indicazione possa essere utile a qualche lettore di buona volontà per confermarla o smentirla.

  5. Questo il tresto del discorso di Mussolini a Pola. Il riferimento agli slavi barbari c’è eccome, e c’è pure dell’altro, come la rivendicazione dell’incendio del Narodni Dom di Trieste, di cui ricorre il centenario.
    Discorso di Pola, 21 settembre 1920

    di Benito Mussolini

    Cittadini di Pola! Combattenti!

    Sta dinanzi a voi uno degli uomini politici italiani più combattuti e più odiati negli ultimi venti anni di vita politica. Questi hanno inasprito talmente la mia eloquenza, se mai si può parlare di eloquenza, per cui io non so fare delle sviolinate.

    Per me un discorso è un’azione, è un combattimento. Punto direttamente nell’obiettivo. Perciò dovrete credermi se vi dico che sono profondamente commosso.

    Noi cittadini della vecchia Italia siamo un po’ adusati: abbiamo bisogno di venire fra voi per rituffarci in questi magnifici bagni di idealità.

    Ho visto delinearsi la grandezza dell’Arena romana, nella quale la civiltà nostra millenaria incise i suoi segni eterni. Questi segni ci dicono che l’italianità di questa città non può perire. Vorrei condurre qui quegli scettici che vogliono vedere la concretizzazione della nostra vittoria.

    Per me il valore della vittoria è in questi segni; è negli imponderabili del futuro; consiste nel fatto che il popolo ha realizzato dopo quindici anni di schiavitù, con le proprie forze, con le proprie energie, la sua vittoria.

    Lo sforzo dell’Italia in guerra è stato infinitamente superiore a quello delle altre nazioni, alle quali la fortuna aveva dato imperi coloniali da sfruttare, mentre noi abbiamo costruito la vittoria dalla nostra carne viva e dal sangue vermiglio dei nostri morti.

    E questo segno della nostra vittoria è più visibile a Pola, dove gli Absburgo avevano fatto il loro covo per la flotta, che non osò mai uscire in campo aperto, che bisognò rintracciare. Da qui gli Absburgo sognavano la conquista dell’Adriatico.

    Ora quest’impero è finito, è crollato come uno scenario sdrucito.

    Io so che nel futuro, quando tutti gli italiani avranno conquistato la coscienza della loro vittoria, si sentiranno orgogliosi e ripeteranno come i legionari di Napoleone, venti anni dopo la fine dell’epopea napoleonica: « Io sono stato in trincea; io sono stato a Vittorio Veneto ».

    Io penso, o amici di Pola, che l’unità della stirpe italiana si è realizzata. In questo è il valore spirituale della vittoria.

    Io penso che l’Adriatico è nostro.

    Certo se noi avessimo avuto altri uomini politici, più visibile sarebbe questo valore, che oggi è nascosto.

    Gli ultimi uomini politici assomigliavano a una scala discendente: da Boselli, troppo vecchio, siamo scesi a Orlando, che piangeva sempre, per discendere infine a Nitti. Questi era l’uomo dalla mentalità economista. Non dico che l’economia per uno Stato grande sia una cosa trascurabile. Dico che tutta la vita di un popolo non può esser vista entro un prisma che schiaccia ogni spiritualità. Nitti era ossessionato da problemi più materiali. Non vedeva la parte superbamente ideale della vita nazionale. Ci darà Giolitti la pace adriatica che noi vogliamo? Non oso affermarlo; non oso dirlo, perché troppa politica rinunciataria si è fatta.

    Tante pagine di eroismo per mare, per cielo e sulla terra non le ha scritte nessun popolo del mondo come quello italiano in questa guerra! Vorrei leggervi il testamento dei nostri eroi; quello di Decio Raggi e del nostro Nazario Sauro; vorrei leggervi l’epistolario di quei giovani imberbi, che andavano ad una battaglia come ad una festa di nozze, per mostrarvi come si è battuto il popolo italiano. E si è battuta meravigliosamente la plebe agricola, quella che solo imperfettamente comprendeva i motivi ideali della grande lotta. Ricordo sul Carso il discorso di un fante durante una battaglia. Egli mi diceva: « La guerra la fa la scarpa grossa ». E noi abbiamo vinto per noi e per gli altri. Quale nazione ha saputo fare lo sforzo che abbiamo fatto noi nel giugno? Nessuna.

    I nostri giovani andavano all’assalto scherzando, accendevano le bombe come s’accendono le sigarette. Basta ricordare lo Stelvio e l’Ortigara, il Carso e il Grappa. Romanamente ha espresso la nostra vittoria il generalissimo Diaz nel bollettino del 3 novembre. Il valore della vittoria è, come dissi, negli imponderabili del futuro.

    Noi siamo in crisi. Ma in crisi sono tutti gli Stati d’Europa. Chi non ha subito spostamenti, dissesti, dopo questa guerra? Forse è peggiore la crisi del dopoguerra in Francia e in Inghilterra, molto peggiore ancora in Germania e negli Stati sorti dall’ex impero austro-ungarico che quella dell’ Italia. Non parliamo della crisi russa. Non bisogna essere pessimisti. Noi in questi giorni abbiamo dimostrato come noi stiamo superando felicemente la nostra crisi.

    Pareva che dovesse scoppiare la guerra civile; mentre noi abbiamo raggiunto una trasformazione profondamente rivoluzionaria nel rapporto della produzione. Io sono pronto a riconoscere alla classe lavoratrice il diritto di controllo nella fabbrica: quando esso sarà in grado di portare maggior benessere alla Nazione.

    Se la classe dirigente è moribonda, è necessario che, secondo la convinzione di Vilfredo Pareto, sorgano delle nuove èlites sociali a sostituirla. Ma oggi nego questa superiorita alla classe lavoratrice. La nego specialmente per il fatto che è dominata da una demagogia che ha soltanto mutato colore. Ai preti si sono sostituiti i preti.

    Pazienza se questi demagoghi si limitassero a fare una politica economica; ma essi trattano anche di politica estera mettendosi sempre contro gli interessi italiani e dalla parte dei nostri nemici nazionali! Cosi voi vedete che il bolscevismo è più acceso a Trieste e a Pola che a Milano; solo per danneggiare l’Italia, per creare dei pericoli ai confini.

    Io faccio assegnamento nei Fasci di Combattimento. Essi sono nati in un’ora di passione della vita politica italiana. Quando cioè tutti cercavano di dimenticare Vittorio Veneto, tutti si vergognavano quasi d’aver vinto.

    Io mi domando: dove trovo la fiammella ideale, la fede per questa vittoria morale?

    Una nazione che ha avuto cinquecentomila morti, che ha gioventù come quella che ha combattuto, ha energie tali da meravigliare rutto il mondo.

    Ma altri sintomi non meno positivi irrobustiscono questa mia fede. Fra questi il più grande è impresa di Gabriele D’Annunzio! È l’unico grande gesto di rivolta contro l’oligarchia plutocratica di Versaglia; contro i tiranni che hanno nome di Lloyd George, Clemenceau e Wilson! E l’unica volontà in Europa che, diritta e tesa come una lama di una grande spada latina, non si è piegata sotto la violenza di Versaglia!

    Noi allora volevamo fare la rivoluzione italianissima!

    Qual’è la storia dei Fasci? Essa è brillante. Abbiamo incendiato l’Avanti! di Milano, lo abbiamo distrutto a Roma. Abbiamo revolverato i nostri avversari nelle lotte elettorali. Abbiamo incendiato la casa croata a Trieste, l’abbiamo incendiata a Pola.

    Abbiamo dimostrato che non impunemente si può tentare di distruggere l’Italia; e che bisogna passare attraverso i nostri corpi!

    I nostri avversali ci calunniano: ci dicono borghesi. Noi ce ne infischiamo. Sono etichette su bottiglie vuote. Noi diamo ragione a chi ha ragione, torto a chi ha torto.

    Noi siamo reazionari, siamo reagenti di una pazzia: abbiamo frenato la massa popolare sull’orlo dell’abisso. Se in Italia si fosse ripetuto l’esperimento ungherese, sarebbe caduto il popolo italiano in un baratro.

    La reazione sarebbe stata senz’altro vittoriosa. Pensiamo quasi che era meglio lasciar compiere il destino per liberare la nazione da quest’incubo.

    Oggi però il Partito Socialista non fa più il prepotente: deve ricorrere ai sobborghi se vuole stare sicuro a Milano.

    Noi non possiamo prestar fede alle minchionerie idealistiche, che per esser troppo universali, sono troppo positive.

    Oltre alla cerchia dei nostri monti, o istriani, c’è un popolo aggressivo, che vuole raggiungere l’Adriatico.

    Questo mare potrà essere commercialmente un mare italo-serbo, ma militarmente non lo sarà mai!

    L’Italia, come il più compatto nucleo dopo la Russia e la Germania, perché ha cinquanta milioni, sarà la potenza destinata a dirigere dal Mediterraneo tutta la politica europea. Da Londra, Parigi e Berlino, l’asse si sposterà verso Roma. Italia dovrà essere il ponte fra l’Occidente e l’Oriente.

    Verso l’espansione nel Mediterraneo e nell’Oriente l’Italia è spinta dal fattore demografico. È troppo ristretto il nostro territorio per un popolo così esuberante.

    Ma per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre. Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone.

    Il popolo italiano ha tre qualità che gli garantiscono il successo: è prolifico, è laborioso, è intelligente.

    Nel futuro prossimo ogni italiano ripeterà come il cittadino romano: sono orgoglioso di essere italiano!

    Noi non temiamo più le rinunce. Se il conte Sforza oserà qualche rinuncia, i legionari di Gabriele d’Annunzio occuperanno tutti quei territori a cui il ministro avrà rinunciato!

    I confini d’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche; sì le Dinariche per la Dalmazia dimenticata!

    Oggi l’opera dei fascisti si riduce a quella di sprangare la porta di casa e rastrellare nell’interno. Chi è dentro le nostre terre di frodo o con frode deve andarsene.

    Il nostro imperialismo, che vuole raggiungere i giusti confini segnati da Dio e dalla natura, e che vuole espandersi nel Mediterraneo, non è quello prussiano violento, né quello inglese ipocrita; è invece quello romano.

    Noi non possiamo disarmare, finché gli altri non avranno disarmato; noi non possiamo trasformare nostre spade in aratri, finché la stessa cosa non avranno fatto gli altri Stati e la Jugoslavia vicina!

    Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche.

    Ma a tenere salda l’Italia nelle future sue battaglie, occorre la vostra fede, o cittadini, occorre il vostro giuramento!

    • Egregio Magno,
      vale quanto detto in calce al suo precedente commento: Lei è in grado o meno di fornire il documento originale più eventuale prova della sua veridicità?
      In caso negativo, ci scuserà se ci fidiamo di Colloredo…
      Marco Vigna, Saverio Paletta

  6. «Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. […] Io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani». Benito Mussolini a Pola, 21 settembre 1920 politeama Ciscutti. Discorso riportato dal quotidiano polese “L’Azione”, consultabile nella biblioteca civica di Trieste. Qualora sia vero quel che è scritto nella recensione, una cantonata del genere sorprende.

    • Egregio Magno,
      Ci permettiamo di ricordarLe che il pezzo che Lei ha commentato è una recensione a “Confine orientale”, il libro di Colloredo.
      Ecco quel che scrive lo storico a proposito della visita di Mussolini a Pola nelle pagine 36 e 37 del suo libro:
      «Mussolini giunse a Pola solo il giorno dopo, pronunciando sì un discorso al Politeama Ciscuti, ma per illustrare il programma fascista e non per attaccare gli slavi! Tutto ciò che si conosce del contenuto è riassunto nelle pochissime righe scritte da Sandro Giuliani per il Popolo d’Italia: “Prese da ultimo la parola Benito Mussolini che illustrò il programma dei Fasci. Il suo discorso, preciso, impetuoso, tagliente, fu del tutto diverso nella forma, pur essendo uguale nella sostanza, a quello pronunciato a Trieste la sera innanzi”. Sul discorso di Pola non si sa niente di più. Il discorso al Ciscuti è andato perduto».
      Inoltre, nella nota 54 del libro, l’autore precisa di aver letto tutti i discorsi e gli articoli pronunciati e scritti da Mussolini nell’intero 1920.
      Ci pare che basti per poterci fidare dell’Autore.
      Ad ogni buon conto, attendiamo una documentazione originale che possa smentire le affermazioni di Colloredo, le quali devono ritenersi valide fino a prova contraria.
      Grazie per l’attenzione,
      Marco Vigna, Saverio Paletta

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