I Tora Tora riscoprono il fascino del Mississipi
La band di Memphis torna dopo diciannove anni di assenza con Bastards Of Beale, in cui l’hair metal degli esordi lascia il posto a un rock blues robusto e pieno di riferimenti agli Zeppelin e alla tradizione southern
Beale Street è una via importante, che parte dal Mississippi e attraversa Memphis, dove incrocia East Street.
Circa tre chilometri di strada, seminali nella storia della musica contemporanea e, in particolare, del blues: qui si sono esibiti nel corso degli anni gli artisti itineranti che hanno sdoganato il blues dalla condizione di race music a quella di espressione universale. Qui ha fatto fortuna Robert Reed Church, il primo milionario di colore della storia degli Stati Uniti.
Da qui ripartono i tennessiani Tora Tora, che tornano a incidere dopo diciannove anni con la Frontiers, accantonano un po’ l’hair metal che li aveva resi famosi nei tardi anni ’80, quando la loro storia si incrociò con quella dei pluricelebrati Survivor, e si dedicano a un hard blues carico di groove dai forti echi zeppeliniani e pieno di ammiccamenti agli Whitesnake.
Nulla di troppo originale, ci mancherebbe, ma tutto quel che basta per fare di Bastards Of Beale un prodotto di alta qualità.
Un ritorno doppio: sulle scene e alle origini di un certo modo di intendere il rock, che nel caso dei Tora Tora perde i lustrini degli anni ’80 ma mantiene quel gusto per la melodia e quel particolare feeling che hanno reso uniche le sonorità del decennio di latta.
Ma non è solo il groove bluesy leggermente settantiano a rendere Bastards Of Beale qualcosa di più di un’operazione nostalgia: grazie alla produzione di Jeff Powell, che ha obbligato la band a registrare live negli studi di Nashville, l’album ha un suono attuale che ammoderna non poco la proposta sonora dei nostri, che si ripresentano nella loro formazione originale, senz’altro più attempati ma ricchi di esperienza e carichi di idee. E pazienza se queste non sono affatto innovative: l’importante è che ci siano.
Non fa nulla se la voce di Antony Corder risulta un po’ appannata e leggera: ciò che non avrebbe funzionato nel contesto hair-class funziona, invece, nell’hard blues. E poi ci sono il riffing massiccio e gli assoli micidiali e ben contestualizzati del chitarrista Keith Douglas, ottimo come sempre a livello tecnico e capace di calarsi appieno nella forma-canzone senza esibizionismi e ridondanze inutili.
E c’è il validissimo lavoro della sezione ritmica, costituita dal bassista Peter Francis e dal batterista John Patterson, piena di tiro dinamico e pesante quel che basta per dare corpo ai brani.
Un riff pastoso alla Jimmy Page vecchia maniera apre Sons Of Zebedee, che si sviluppa in maniera piacevole sulla doppia citazione Zeppelin–Whitesnake, con un sound ammodernato in maniera efficace e convincente.
Decisamente zeppeliniana la struttura di Giants Fall, impostata sulla strofa cantata in ritardo sul riff e su un’armonia blues che sfocia in una parte centrale strapiena di groove marcato a fuoco da una chitarra ossessiva.
Gli echi zeppeliniani si sentono anche in Everbright dove si mescolano agli influssi southern con un gradevole tempo di stomp pieno di stop and go.
Quella degli Zeppelin sembra una vera e propria fissa per Corder e soci, ma non è proprio un caso se la voce del frontman arriva quasi a clonare quella di Plant nella bella Silence Of Sirens, la canzone più radiofonica della raccolta, che si segnala per le atmosfere notturne e la chitarra più leggera e minimale.
Gli influssi del Mississippi emergono prepotenti in Son Of A Prodigal Son, a partire dalla metafora biblica cara alla cultura evangelista del titolo (alla lettera: Figlio di un figliol prodigo) per culminare nella robusta struttura country, arricchita da qualche riferimento heavy qui e lì.
Gli influssi del grande fiume diventano effluvi nella suggestiva Lights Up The River, una ballad country che declina in chiave americana la lezione degli Zeppelin.
Let Us Be One è un rock blues torridissimo che rifà il verso con garbo agli Whitesnake delle origini grazie a un riff sporco e cupo.
Più ariosa e scanzonata, All Good Things si lancia su una bella armonia aperta e su un ritmo cadenzato che rievoca di nuovo il Serpente Bianco, ma con un pizzico di Status Quo. Un’altra lezione di rock dall’America profonda.
Gradevole e ritmatissima, Rose Of Jericho è un altro rock blues dall’andamento stomp e dal bel riff rotondo.
Il breve strumentale Vertigo è il pezzo più heavy dell’album (forse anche grazie all’assenza della voce, che è l’elemento più leggero della band): una robusta pièce dai toni post metal, in cui i riff e i soli assassini della chitarra si innestano su una base ritmica movimentatissima, piena di cambi e controtempi.
Chiude il rock ’n’ roll vivace e pesante quanto basta della title track, l’ennesimo omaggio alle origini mississipiane.
Una chicca a mo’ di appendice, come da tradizione Frontiers: una versione acustica e cantata di Vertigo, dai curiosi toni country blues.
Godibile e ben concepito, Bastards Of Beale riapre la carriera di una band altrimenti destinata a far parte delle stelle cadenti cancellate da quell’immenso riflusso dal rock che è stato il grunge.
I Tora Tora sono vivi e lottano con noi (e i nostri timpani). Serve altro?
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale dei Tora Tora
Da ascoltare (e da vedere):
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