Un Risorgimento mafioso? Ma quando mai…
La nascita dei rapporti proibiti tra malavita e politica secondo il mafiologo Ciconte. Ma la sua lettura è ormai superata…
Il calabrese Enzo Ciconte, dotato di solido background politico-culturale (tra l’altro è stato deputato prima nel Pci e poi nel Pds durante il tracollo della Prima Repubblica), passerà con tutta probabilità alla storia come padre fondatore della mafiologia. Cioè di quella curiosa disciplina – esistente più nei media e nei desideri delle associazioni che a livello scientifico – che mira a dare risposte alle problematiche criminali pescando un po’ dappertutto: senz’altro dalla storia e dalla cronaca, ma anche dalle discipline giuridiche ed economiche e, ovviamente, dalla sociologia.
Che Ciconte, già docente a Roma Tre di Storia della criminalità organizzata, miri a questo importante risultato, lo ribadisce il suo recente Borbonici, patrioti e criminali. L’altra storia del Risorgimento (Salerno, Roma 2016), in cui il prof di Soriano Calabro si occupa delle «reciproche “fascinazioni” tra movimento risorgimentale e organizzazioni criminali», cioè cerca di analizzare il cosiddetto problema delle origini, almeno per quel che riguarda la criminalità organizzata italiana e, soprattutto, il suo potere.
Fin qui siamo a una lettura piuttosto classica e non falsa: le mafie italiane si affermarono e ottennero ruoli di potere in seguito alle crisi politiche che hanno travagliato, dalla metà del XIX secolo, l’Italia. Furono tali i moti del ’48, il primo scossone serio alle vecchie dinastie che governavano gli Stati preunitari, fu tale il Risorgimento, che le cancellò e provocò una serie di quelle che i giuristi definiscono rotture dell’ordinamento, cioè la cancellazione di sistemi di potere consolidati da secoli e la loro sostituzione con l’ordine del neonato Regno d’Italia. In quelle circostanze, assolutamente eccezionali e traumatiche, in particolare per gli ex sudditi del Regno delle Due Sicilie, i rappresentanti del nuovo sistema liberale scesero a patti con i malandrini e li inserirono negli ingranaggi del potere. Questo patto scellerato era la base della successiva affermazione delle mafie.
Proprio perché classico, il discorso di Ciconte non è affatto nuovo. Tutt’altro: si inserisce alla perfezione nel solco di alcune letture storiografiche, tra cui spiccano quelle del filone anglosassone ispirato da Denis Mack Smith.
Tuttavia, un ragionamento di questo tipo oggi è difficilmente sostenibile. E non perché manchino prove (la pubblicistica di fine Ottocento ne offre sin troppe), ma per una questione logica: le associazioni criminali, cioè Camorra, Mafia e Picciotteria (poi Onorata Società, infine ’ndrangheta) per prendere piede e trattare da pari a pari con gli esponenti del nuovo ordine dovevano per forza di cose preesistere ad esso. Per fortuna, Ciconte ammette senz’altro questo delicato passaggio logico. Anzi, lo descrive in maniera minuziosa grazie a quelle ricostruzioni di ampio respiro in cui è un maestro.
Due sono i casi macroscopici raccontati dall’Autore. Il primo riguarda Liborio Romano, l’aristocratico meridionale passato senza colpo ferire dai vertici delle Due Sicile, dove fu prima prefetto di Polizia a Napoli e poi ministro, a quelli del Regno d’Italia, dove fu eletto deputato dopo aver goduto dell’appoggio di Garibaldi. Don Liborio poté contare su un accordo forte coi camorristi di Tore ’e Criscienzo (Salvatore De Crescenzo). Segno che, fa capire Ciconte, che né Romano, asceso ai piani alti del reame borbonico dopo (e nonostante un) passato da cospiratore liberale e carbonaro, né chi lo aveva preceduto avesse brillato troppo in repressione della Camorra.
La collusione è più esplicita nel caso di Salvatore Maniscalco, il ministro della polizia borbonica, accusato addirittura di aver arruolato malandrini. Bastano questi cenni per far capire come Ciconte si sia tenuto lontano dagli aspetti più grossolani di certo revisionismo neoborbonico (quella roba alla Pino Aprile, per capirci, a cui ha abboccato, probabilmente in malafede, anche qualche accademico) e abbia respinto le tesi secondo cui il Risorgimento sarebbe stato anche criminogeno. No. Semmai, fu criminogeno il mix di arretratezza socio-culturale e di instabilità politica dell’epoca.
I limiti di questo libro sono altrove.
Il primo è nell’impossibilità di racchiudere un soggetto così delicato e ambizioso, cioè la genesi dei rapporti proibiti tra criminalità e politica, in un volume ridotto e destinato a un pubblico non necessariamente specialistico. Il secondo è che questo discorso ambizioso è privo di una base scientifica solida. Per carità, l’autore mette le mani avanti e dice che Borbonici, patrioti e criminali «non è una storia del Risorgimento né della mafia». Però il punto è che parla di entrambi. E mentre una nozione di Risorgimento c’è, sebbene contestata, quella di mafia manca del tutto. Detto altrimenti: esiste una nozione univoca in base alla quale si può definire mafioso un gruppo o un comportamento criminale? Evidentemente sì, altrimenti non si parlerebbe di mafia turca, russa, ebraica ecc., per richiamare soggetti riconducibili a una stessa matrice.
Questa preoccupazione non è solo teorica: se fosse stato impossibile definire la mafia e quindi distinguerla da consorterie criminali di altro tipo (ad esempio, le gang di strada, le batterie ecc.) non sarebbe stato neppure possibile elaborare normative antimafia specifiche, sul modello della legge Rognoni-La Torre, da cui è derivato il 416bis del codice penale.
Il problema è che questa definizione non è neppure considerata dalla mafiologia editoriale, perché è una definizione politica, non solo a livello pratico ma soprattutto a livello teorico. Questo modello teorico di mafia è stato riproposto di recente in Divorati dalla Mafia (Elliot, Roma 2010), un sottovalutato volume di Jean-François Gayraud, questore della Polizia francese e studioso del fenomeno, ma era stato anticipato già tra Otto e Novecento dalle riflessioni di Gaetano Mosca e Santi Romano: la mafia è tale, secondo questo concetto scomodo, perché è una struttura politica, cioè è un gruppo di potere che mira a controllare uno o più territori e a imporvi proprie regole, in concorrenza o in conflitto con quelle delle istituzioni legali. Certo, è una definizione larga, ma di sicuro aiuta a capire di più. E a risolvere una questione che Ciconte lascia aperta nel suo libro. L’Autore, infatti, traccia una lunga carrellata di precedenti, che risalgono al XV secolo, sui rapporti tra autorità legali e criminali, associati e non. Ma siamo sicuri che siano precedenti del problema specifico che si sviluppa in Italia a partire dal Risorgimento? No. Perché una cosa è un regime che arruola i galeotti nell’esercito o in marina, un’altra un sistema liberale che scende a patti con organizzazioni ramificate.
Certo, la mafia è figlia di una mentalità – quella, tipicamente meridionale e agricola, che legava il possesso della terra alla ricchezza – e di un disagio. Ma ciò non giustifica il persistere di un’analisi storica, a cui Ciconte aderisce quasi senza riserve, basata sulla sola questione sociale, sulle origini di un fenomeno sopravvissuto alle proprie origini contadine. Certo, questo tipo di analisi, in cui persiste sin troppo un certo retaggio gramsciano ha fatto altri danni.
Ad esempio, ha consentito di distinguere tra una mafia cattiva, perché legata al potere, e un brigantaggio buono, perché comunque ribelle e politico in maniera esplicita. Ciconte cerca di non cadere in questa trappola, tuttavia insiste in questa distinzione, oggi sostenuta a spada tratta e in modo più rozzo dai revisionisti e dai neoborbonici. In realtà la politicità, intesa nel modo in cui la si è applicata alle mafie, accomuna sin troppo i due fenomeni: a rileggere i faldoni giudiziari dell’epoca, ci si rende conto agevolmente che molti briganti furono condannati per reati simili a quelli per cui venivano perseguiti i mafiosi (viceversa, nei casi di conclamato ribellismo, ad esempio Carmine Crocco, la pena fu meno pesante) e che spesso molti briganti godettero di appoggi non indifferenti anche nel notabilato meridionale. I due fenomeni, perciò, non solo si somigliano sin troppo, ma risultano addirittura parenti stretti. Cercarvi troppe differenze è funzionale solo a un modo arretrato di leggere la Questione meridionale. Che riemerge puntualmente in Borbonici, patrioti e criminali quando Ciconte tira in ballo Lombroso, a cui attribuisce in maniera implicita la genesi scientifica del pregiudizio antimeridionale. Delle due l’una: o Ciconte non ha letto Lombroso (in particolare In Calabria, dove il pregiudizio non c’è e dove lo scienziato veronese enuncia il suo punto di vista definitivo sulla Calabria) oppure ci fa, magari per compiacere alcuni revisionisti. I pregiudizi fisiognomici preesistevano a Lombroso, che elaborò la sua teoria del delinquente nato ben dopo la repressione del brigantaggio, ed erano un topos letterario praticato a tutte le latitudini. Quindi Lombroso non riprese nulla e nessuno lo anticipò.
Un altro esempio di questa lettura arretrata riguarda la critica alla piemontesizzazione dell’Italia, secondo cui l’esplosione di criminalità al Sud sarebbe anche un risultato dell’estensione coatta di norme ed istituzioni piemontesi al resto della penisola senza riguardo alle tradizioni locali. In realtà gli accentramenti politici sono stati alla base di tutti gli stati nazionali, sia di antica tradizione, Spagna e Francia, sia risorgimentali, Italia e Germania. L’esempio tedesco è particolarmente calzante: sebbene mantenesse una struttura federale, il Reich guglielmino si costituì anche tramite l’imposizione di norme, uomini e strutture prussiani (orientali e protestanti) ai regni tedeschi dell’Ovest, in prevalenza cattolici e già nell’orbita asburgica, a volte con esiti repressivi e autoritari, come il Kulturkampf bismarkiano. Un discorso simile può essere ripetuto per tutti gli Stati nati dai tracolli dei grandi imperi, austriaco e ottomano, in cui i processi di state building si accompagnarono a forme più o meno cruente di pulizia etnica. E allora, come mai certe polpette avvelenate, mafie e brigantaggio, sono toccate solo all’Italia? Difficile dare qui una risposta. Ma è evidente che una risposta convincente non riesce a darla neppure Ciconte, perché si basa su una cassetta degli attrezzi inadeguata. Le strade da percorrere oggi sono altre.
Ciò non toglie, tuttavia, che il libro del mafiologo calabrese non abbia un suo valore: aiuta a riscoprire, grazie anche a una bibliografia consistente, episodi e personaggi che, altrimenti finirebbero nel dimenticatoio. Ma è un risultato minimo.
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