Tirocinanti calabresi, l’ultima beffa per i precari della pa
Un concorso per operatori giudiziari nel quale partono svantaggiati e un corso di formazione che forse servirà poco. Sono le due uniche opportunità per i tirocinanti, soprattutto calabresi, utilizzati per circa dieci anni dal Ministero della Giustizia, dall’ex Miur e dal Mibact. E c’è di peggio: a partire dal 2021 la Regione potrebbe scaricarli…
Esistono da circa dieci anni. Sono un po’ dappertutto, ma in Calabria di più.
Lavorano per lo Stato, ma lo Stato non li riconosce come lavoratori.
Sono i tirocinanti utilizzati dalle pubbliche amministrazioni, che con il loro operato hanno contribuito a tappare non poche falle in cambio di una miseria.
Questi tirocinanti sono ex lavoratori, che hanno accettato i loro ruoli attuali per potersi reinserire.
Sono tutti ruoli borderline, sebbene se ne avvantaggino tre ministeri importanti: quello della Giustizia, il Mibact e l’ex Miur.
Questi tirocinanti rischiano ora l’ennesima fregatura: non riusciranno, con tutta probabilità, a ottenere un posto di lavoro vero e saranno, con altrettanta probabilità, scaricati dagli enti che provvedevano a compensare le loro attività. Il tutto sotto Natale.
Procediamo con ordine.
Innanzitutto, i tirocini non sono lavoro a livello giuridico. Sono forme di apprendistato, senz’altro rimborsate, ma non danno luogo a oneri previdenziali per gli enti utilizzatori né a tutele sindacali dirette. Detto altrimenti: il tirocinante non ha diritto a contributi e può parlare con un sindacalista solo per avere consulenze.
Tutto questo è durato una decina d’anni, almeno in Calabria, dove la disoccupazione e la sottoccupazione croniche hanno gonfiato a dismisura la categoria.
Infatti, con circa settemila tirocinanti, di cui circa il quaranta per cento a disposizione del Ministero della Giustizia, la Calabria ha il primato in questa categoria.
Chi paga è la Regione. Ma, con tutta probabilità, la Regione smetterà di erogare il rimborso (che ruota attorno ai cinquecento euro mensili) a partire dal nuovo anno. Così, almeno, ha fatto capire l’assessore regionale Fausto Orsomarso durante una recente intervista televisiva, senza sbilanciarsi troppo sui motivi di questa decisione.
Uno dei quali è facile da intuire: la fine (o l’assottigliamento) dei fondi.
Tuttavia, i settemila tirocinanti fanno gola per un motivo altrettanto facile da capire: sono voti e non solo individuali, visto che molti di loro, per dirla alla Longanesi, tengono famiglia.
Ed ecco perché, alla vigilia delle imminenti Regionali anticipate dalla scomparsa prematura della presidente Jole Santelli, vari esponenti politici e aspiranti candidati si sono affrettati a esprimere la propria solidarietà e la propria preoccupazione.
Così ha fatto, ad esempio, Nino Spirlì, il presidente facente funzioni della Calabria, espressione della stessa maggioranza di cui fa parte Orsomarso.
Così, da un lato completamente diverso della barricata, ha fatto Carlo Tansi, che tenta per la seconda volta una candidatura in solitaria nel nome del civismo.
Ma in concreto per loro c’è poco. Di sicuro meno che per i lavoratori socialmente utili o di pubblica utilità (per capirci lsu e lpu), altra categoria storica di precari delle pubbliche amministrazioni, soprattutto degli enti locali e dei Comuni in particolare, nei cui confronti la classe politica calabrese si è spesa non poco.
Ma andiamo avanti: l’ultima novità che riguarda i tirocinanti è costituita dai corsi di formazione istituiti dalla Regione Calabria e affidati a enti accreditati, in seguito ai quali questi ex lavoratori in cerca di riqualificazione dovrebbero ottenere dei punteggi che potrebbero consentire loro l’agognato reinserimento.
Peccato solo che di concorsi idonei ad assorbirli ce n’è solo l’ombra. E non è un modo di dire: l’unico disponibile è quello bandito lo scorso 15 settembre dal Ministero della Giustizia per mille posti a tempo determinato in ruoli non dirigenziali.
Durata del contratto, ventiquattro mesi. E le mansioni previste sono praticamente quelle svolte finora dei tirocinanti senza che qualcuno le riconoscesse come lavoro: compiti pratico-esecutivi, per cui come usa dire non occorre una scienza ma che servono, visto che di questi operatori giudiziari finora i Tribunali di tutta la Penisola hanno avuto un gran bisogno.
Certo, due anni di lavoro vero non risolvono i problemi accumulati da persone che, pur lavorando di fatto da anni, restano per la legge disoccupati di lungo corso. Ma possono aiutare non poco, soprattutto a raggiungere i fatidici tre anni da precario che darebbero diritto all’assunzione.
Il rimedio del Ministero sa di beffa: potrà partecipare un numero di concorrenti pari al triplo dei posti messi a bando (cioè circa tremila) e i colloqui si svolgeranno in base a una graduatoria, in cui i tirocinanti hanno non pochi concorrenti, a cui sono assegnati punteggi forti (ad esempio, ex militari o disabili). Ma questo meccanismo taglia fuori comunque millecinquecento persone, quasi tutti tirocinanti.
Non finisce qui, visto che non pochi, anche tra gli addetti ai lavori, hanno notato alcune irregolarità vistose. Ne segnaliamo una, per cui alcune associazioni avrebbero tentato di sollevare alcune contestazioni: nella graduatoria figurerebbero dei ventenni dotati di un punteggio enorme, che sarebbe giustificato solo dal possesso di una laurea e da anni di tirocinio formativo.
E il corso istituito dalla Regione? Inutile, perché i colloqui sono già iniziati e il corso non è neppure a metà. In pratica, i tirocinanti sono costretti a seguire delle lezioni, senz’altro importanti a livello teorico ma sostanzialmente inutili: i punti arriverebbero comunque in ritardo per essere spesi utilmente.
Per questo motivo, i tirocinanti della Giustizia avanzano una richiesta minima: l’allargamento della graduatoria per poter sostenere i colloqui, iniziati da metà dicembre.
Fuori da questa possibilità, per loro resta ben poco: la Costituzione pone uno sbarramento all’articolo 97, laddove prevede il concorso pubblico come unico titolo d’accesso alla pa tranne i casi stabiliti dalla legge.
Solo la Corte Costituzionale ha mitigato un po’ questi criteri in due modi.
Il primo è rivolto al passato: i giudici costituzionali riconoscono la legittimità del risarcimento per perdita di chance. In pratica, lo Stato o chi per lui dovrebbe risarcire questi lavoratori.
Il secondo è rivolto al futuro ma è decisamente più debole: in questo caso, la Corte ritiene legittime le deroghe all’articolo 97 «se funzionali alle esigenze di buon andamento della PA e se ricorrono peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle». È poco più di uno spiraglio, ma ci sperano, tanto più che, anche se fossero assunti tutti, avanzerebbero comunque non pochi posti da mettere a concorso.
In fin dei conti, hanno lavorato e acquisito esperienza sul campo. E magari hanno lavorato gomito a gomito con personale regolarmente assunto per svolgere le medesime mansioni.
Le pubbliche amministrazioni si sono servite a lungo dei tirocinanti, a cui non hanno tuttavia riconosciuto alcun diritto. E ora questi tirocinanti rischiano di essere scaricati, dopo essere stati portati a spasso per dieci anni con la prospettiva massima (e quasi certa) di un risarcimento e quella, decisamente più labile, di un’assunzione in deroga o di qualche concorso cucito sulla loro misura.
È il caso di non dimenticarli. E non perché siamo sotto Natale: la dignità è un obiettivo minimo per tutti ed è grave che proprio il settore pubblico venga meno a questo impegno. Di più: è scandaloso che proprio lo Stato e gli enti pubblici si siano comportati a lungo come certi imprenditori borderline abituati a sfruttare il lavoro nero e a silurare i propri dipendenti non appena non servono più.
Dovevamo arrivare al terzo millennio dopo circa due secoli di lotte sindacali per assistere a certi spettacoli proprio da parte di chi, al contrario, dovrebbe reprimerli?
E, per concludere: a che è servito tanto civismo antipolitico quando l’unica sensibilità finora dimostrata dalle classi dirigenti resta quella clientelare?
Non è proprio un bel destino quello che attende i tirocinanti: o un siluro o un altro anno di conferma, magari giustificato dell’emergenza Covid, per dargli la possibilità di votare. Non sarebbe più decoroso un bel gesto di responsabilità?
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