Walk The Sky, il volo potente degli Alter Bridge
I padrini dell’alternative metal tornano alla grande con un album forte e intenso con cui mettono da parte le sperimentazioni e riprendono il sound degli anni d’oro
Forse non sarà quella grande rivoluzione, nella storia del rock come, più semplicemente, nella produzione della band americana diventata da qualche anno sinonimo di alternative metal.
Ma Walk The Sky (Napalm, 2019), ultima fatica in studio degli Alter Bridge, merita davvero assai.
Non è una questione di originalità, anche perché il quartetto di Orlando ha accantonato un po’ le sperimentazioni del precedente The Last Hero (2016) e ha ripescato la formula vincente di AB III (2010) e di Fortress (2013).
È una questione di metodo: fare al meglio ciò che si sa fare meglio. E l’hard robusto che da fine millennio gli Alter Bridge forniscono ai loro fan è una garanzia di qualità.
Anche stavolta il cantante-chitarrista Myles Kennedy e il chitarrista-cantante Mark Tremonti sono riusciti a mettere assieme materiale sonoro degno di nota e ad assemblare una raccolta di canzoni con tutti i crismi, nonostante gli impegni nei rispettivi side-project (quello di Kennedy assieme a Slash e quello del chitarrista coi suoi Tremonti) e a rimettere in moto la band con un prodotto musicale brillante e compatto, grazie anche alla valida produzione dello storico Michael Baskette, che cura come sempre anche le parti di tastiera e degli archi. Il tutto impreziosito dall’imponente lavoro del bassista Brian Marshall e del batterista Scott Phillips, una sezione ritmica unica per potenza e versatilità.
Il minuto e mezzo dell’intro One Life consente di apprezzare subito la vocalità intensa di Kennedy, a perfetto agio con una melodia ariosa su un tappeto di tastiere molto suggestivo.
Ma la band si rivela in tutta la sua potenza nella open track Wouldn’t You Rather, che esordisce con un riffone ultragranitico debitore non poco della lezione zeppeliniana. Ottima ancora la prestazione del frontman, alle prese con gorgheggi decisamente più hard in stile anni ’70. Martellante e precisa la ritmica, ben piazzato ed efficace l’assolo di chitarra. C’è da chiedere altro?
La seguente In The Deep strizza l’occhio a sonorità un po’ più radiofoniche e americane, con un coro ruffiano che richiama i Van Halen del periodo con Sammy Hagar. Ma l’elaborazione sonora del quartetto fa davvero la differenza: il pezzo è una bella prova d’insieme molto variegata, piena di cambi di ritmo e di atmosfera. A riprova che gli Alter Bridge mantengono un certo spessore anche quando provano soluzioni più leggere.
Sempre su lidi americani, Godspeed insiste ancor più verso soluzioni aor, grazie a un bell’intro di pianoforte, a una melodia accattivante e a un coro arioso e potente.
Con Native Son la band ritorna a picchiare duro: un riff massiccio di Tremonti regge un bel pezzo hard dai suoni pesantissimi che ricorda non poco i migliori Extreme.
Stessa ricetta per la successiva Take The Crown, in cui le sonorità massicce fanno da cornice a un approccio melodico più epico (e, dato il titolo, non poteva essere altrimenti…).
Un riff distorto di basso e chitarra regge la bizzarra – ma efficace – Indoctrination, piena di citazioni orientaleggianti e aperture melodiche celestiali.
The Bitter End ripropone soluzioni più leggere. Ma è una leggerezza alla Alter Bridge, dovuta all’impostazione melodica più che al sound, che resta comunque possente. E il risultato è tutt’altro che disprezzabile, visto che il brano colpisce molto per il suo crescendo pieno di pathos.
In Pay No Mind la band si concede un maggiore uso dell’elettronica, che dà maggiore spessore al sound senza ammorbidirlo. Anche in questo caso, l’ascoltatore è alle prese con un bel pezzo heavy dall’incedere massiccio e dalle soluzioni tutt’altro che scontate.
Un tripudio di chitarre acustiche con tanto di fingerpicking in evidenza, introduce l’epica e possente Forever Falling, in cui Tremonti prende il posto di Kennedy al microfono con un ottimo risultato.
Varia e di grande respiro dinamico, Clear Horizon alterna parti di grande suggestione melodica a un riffing granitico. Il tutto ben sostenuto da una ritmica cangiante.
Con la suggestiva Walking On The Sky gli Alter Bridge giocano la carta della semi ballad, in cui le parti melodiche sognanti si alternano a impennate sonore non indifferenti.
Più morbida e meditata l’americaneggiante Tear Us Apart, in cui il muro del suono è al servizio di una bella melodia radiofonica cantata a due voci.
I titoli di coda calano sulla bellissima e maestosa Dyng Light, un pezzo cadenzato dal refrain potente e dal coro intenso e a tratti struggente.
Inutilmente criticato da molte webzine, Walk The Sky è in realtà un album notevole e maturo, in cui il quartetto statunitense interpreta alla grande le soluzioni musicali (e persino i cliché) che lo hanno reso celebre.
E, a proposito di celebrità, le classifiche parlano più chiaro di tante critiche: uscito alle porte dell’inverno, l’album si è piazzato benissimo in tutte le chart internazionali, Italia inclusa, specializzate e generaliste.
Segno che il pubblico (e quello dedito all’hard rock è più selettivo di quello mainstream) ha più intuito di tanti recensori più o meno improvvisati.
Buon ascolt: l’ora di grande musica di Walk The Sky lo merita.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale degli Alter Bridge
Da ascoltare (e da vedere):
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