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Dal metal al folk, The Coordinator si racconta

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Il giovane artista calabrese fa il punto sul suo percorso, iniziato sui classici del rock ascoltati nell’adolescenza e approdato a una dimensione acustica influenzata dai grandi cantautori americani

Al The Coordinator è il nome d’arte del musicista calabrese Aldo D’Orrico. Da sempre appassionato di musica, D’Orrico sperimenta fin da piccolo più strumenti musicali e nel corso della sua carriera approccia diversi generi. Fa parte di diverse formazioni e intrattiene le collaborazioni più svariate: Miss Fraulein, band rock alternative, e Muleskinner Boys, pionieri del country folk, sono solo due esempi del suo percorso artistico. Quindi approfondisce gli studi con il maestro Lutte Berg e accompagna nella sua tournée italiana Amy Coleman

Al The Coordinator alle prese con un banjo

Sei da sempre appassionato di musica ed in particolar modo del metal. Nel tuo percorso artistico hai toccato più generi. Sei stato in numerose formazioni e hai collezionato parecchie collaborazioni. E non mancano esperienze forti, come quelle con i Taxaco Jive e la tournée italiana di Amy Coleman. Parlaci di come si è evoluto negli anni il tuo cammino musicale.

Mi sono approcciato alla musica quando frequentavo ancora le Medie: allora suonavo per divertirmi con gli amici. Poi ho iniziato ad ascoltare classici come Queen, Iron Maiden e Pink Floyd ed è nata in me la voglia di approfondire questo discorso. Perciò mi sono messo a suonare in gruppi. Sono partito con il metal, poi sono arrivati i Miss Fraulein, la tournée italiana di Amy Coleman e il suo blues. Le lezioni di chitarra dal maestro italo svedese Lutte Berg hanno completato la mia preparazione. In seguito mi sono avvicinato al bluegrass, genere tradizionale americano. È stato il presupposto per la mia sperimentazione sul musica blues e al ritorno ai grandi come Bob Dylan e Neil Young.

Al The Coordinator in azione sul palco

Da che deriva la scelta del nome Al The Coordinator?

Inizialmente mi facevo chiamare Al Donne, cioè come John Donne. In un secondo momento ho scoperto che era già occupato. Intanto stavo leggendo un libro sui Pink Floyd e ho scoperto di un marchingegno che loro usavano per guidare il quadrisound dal nome Azimuth Coordinator. Poi mi sono accorto che Coordinator era l’anagramma di nato D’Orrico. È stato un segno del destino.

Puoi raccontare la tua in Calabrian City Rockers vol. 1.

Mi ha contattato Vladimir Costabile per realizzare una compilation che doveva essere una fotografia della musica di quegli anni in Calabria. Mi aveva cercato per i Miss Fraulein ma all’epoca non suonavamo più. Allora gli ho parlato del mio progetto, all’epoca in costruzione, e ho proposto il brano The Hunter’s Prayer. E lui da Calabrian City Rockers ha creato la Lumaca Dischi.

Il videoclip di The Shepherd’s Walk racconta di tre uomini con la comune passione della montagna, ma soprattutto la legenda del camminatore dotato di un dono più unico che raro. Un racconto intimistico e naturalistico in sintonia con lo spirito della musica folk. È la ricerca di se stessi, la ricerca continua dell’essere rispetto all’apparenza? Un pezzo mistico? Che significato ha la presenza dei lupi?

C’è l’aspirazione: io non vivo in montagna, ma vedo le montagne dalla finestra di casa mia. È un desiderio di fuga. Una voglia di spazi e di solitudine. Ovviamente si possono trovare questi spazi in città. L’alienazione che si può creare in città somiglia a quella che viene creata da un bosco. I tre protagonisti sono pastori. Metaforicamente sono pastori di montagne, le conoscono così bene e ne sono così impregnati che il loro gregge sono le montagne stesse. Io che cammino rappresento loro, mentre i lupi sono le montagne. 

Girl From The Northcountry è una cover di Bob Dylan. Come mai hai scelto questo pezzo? Come hai lavorato per renderlo tuo?

Già da prima della nascita del progetto Al The Coordinator. La mia ragazza viveva al nord e perciò pensavo anche a lei. Ma la suono perché è uno dei pezzi più belli di Bob Dylan.

Un primo piano di Al The Coordinator

Sei passato attraverso più generi, tra cui rock e folk. Sempre nell’ambito del mondo indipendente. In un momento storico dove la parola indie viene solo accostata al solo pop, come si rapporta il mondo discografico tra major e indipendente?

Il problema è che la gran parte della scena indipendente è diventata mainstream. La scena musicale si è un po’ edulcorata. Non significa che il mainstream sia il male. Ma quando un certo tipo di pop fagocita anche la scena alternativa le cose non vanno più bene. Infatti, nei posti in cui si suonava indie ora c’è spazio solo per il pop commerciale. E questo è un male, perché chi si occupa di musica diversa da quel pop non ha quasi più spazio. Per quanto riguarda il cambiare genere, spaziare e avere più esperienze può essere solo positivo. Però se è un genere a dominare sugli altri, diventa sintomo di un malessere.

Nel live hai parlato del nuovo disco in uscita il prossimo 20 dicembre. Raven Walz.

Sempre un disco di estrazione folk cantautoriale, con molte influenze country e bluegrass. Però questa volta partecipano più strumenti, cioè più band. Inoltre i pezzi sono stati tutti arrangiati da me, come anche la scrittura dei testi. La produzione artistica è mia. Unica eccezione per una cover di cui ancora non svelo il titolo. Uscirà sempre per la Lumaca Dischi. Suono sempre chitarra, banjo e mandolino, oltre a cantare. Ci sono aggiunte di pianoforte, di stage piano, un contrabbasso, un dobro, che è uno strumento tipico del bluegrass, un altro mandolino, un po’ di cori, un armonium indiano, un violino e qualche percussione.

Hai sempre scritto i testi dei tuoi pezzi in inglese. Come mai questa scelta? Secondo la tua opinione che differenza può esserci, nella ricezione del pubblico, tra un pezzo in inglese e uno in lingua madre?

Trovo più semplice scrivere in inglese, perché penso sia più facile a livello di metrica per i generi di cui mi sono occupato. Scrivere in italiano per me sarebbe molto più complicato. Non penso certo che cantare in italiano sia una scelta sbagliata, anzi. Però al momento non ci sono mai riuscito. Forse perché nei miei ascolti, fin da ragazzo, c’erano sempre artisti internazionali.

La ricezione dell’inglese rispetto all’italiano sarà sempre difficoltosa, la comprensione al momento è sicuramente dura. Però credo che, grazie a internet e alla possibilità di usufruire di film e serie in lingua originale, anche nel nostro Paese si stanno facendo enormi passi avanti in questo campo. Sempre partendo dal presupposto che non c’è una lingua migliore di altre, ed è solo una questione di scelte.

(a cura di Fiorella Tarantino)

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