Future Dust, una conferma rock per The Amazons
Undici brani ruvidi e diretti per il giovane quartetto britannico che, a due anni dal successo dell’esordio, molla il pop e si converte agli Zeppelin e all’indie
C’è poco da storcere il naso: i The Amazons sono bravi. Magari poco originali ma nient’affatto derivativi, i quattro ragazzotti di Reading hanno mollato il pop rock dell’omonimo album d’esordio (2017) e con il recentissimo Future Dust (Fiction Records 2019) virano verso un indie rock robusto, pieno di riferimenti agli anni ’70 e di strizzatine d’occhio al grunge.
Niente cose sofisticate, difficili da pretendere da millennials del rock piuttosto furbetti e attenti al marketing come loro. Tutta roba semplice, come la loro storia di band arrivata al successo a botte di singoli e di clic su Youtube e Vimeo.
A leggere le interviste che hanno rilasciato a varie testate, si capisce pure che il quartetto britannico non è il massimo a cultura musicale: citano i Queens Of The Stone Age e i Led Zeppelin e ci aggiungono, un po’ alla rinfusa, qualche mostro sacro del rock ’n’ roll (Buddy Holly e Jerry Lee Lewis), del blues (Howlin’ Wolf) e del rock blues (Janis Joplin), che dicono di aver scoperto nel loro tour americano.
Eppure questa giovane band, arrivata al successo quasi per caso, ha una capacità di compensare l’inesperienza con una grinta, una freschezza e una faccia tosta senza pari.
Tutte doti che emergono alla grande in Future Dust.
Che i The Amazons mirino al sodo lo si capisce da subito e non a caso aprono l’album con il singolo tormentone Mother (alzi la mano chi non l’ha sentito almeno una volta su Virgin Radio o Radiofreccia), che ha le carte in regola per scuotere anche palati più fini delle platee postadolescenziali a cui la band si è rivolta finora: la ritmica è precisa e tosta ma non eccessivamente pesante, grazie al drumming squadrato di Joe Emmett e alle linee essenziali del basso di Elliot Briggs; la chitarra di Chris Alderton spara riff sporchi e tamarri quel che serve, più qualche efficace incursione solista, e la voce di Matt Thomson emerge roca e potente senza strafare.
Aggiungiamo al tutto un refrain ruffiano e un coro da stadio e il gioco è fatto: se vi piace il rock, non potrete non cascarci.
La formula a base di suoni grevi e melodie accattivanti prosegue nella gradevole e più articolata Fuzzy Tree, che presenta un andamento più spedito e un riffing leggermente più heavy.
La punkeggiante (ma senza esagerare) 25 riprende e aggiorna alcune trovate dei Green Day. Anche in questo caso l’arma vincente è il refrain seducente e melodico.
Il breve strumentale (una trentina di secondi) di The Mire introduce Doubt It, il secondo singolo, un curioso miscuglio di brit pop e stoner arricchito da falsetti alla Muse. Il tutto shakerato senza grande originalità ma con grande efficacia.
All Over Town è un altro pezzo pop rivestito (bene) con sonorità stoner, in cui il contrasto tra la melodia orecchiabile e le chitarre sporchissime funziona benissimo.
End Of Wonder è probabilmente il brano più bello e significativo della raccolta, grazie alla linea melodica più matura e agli arrangiamenti indie ben congegnati.
Più sbilanciata verso il pop nel refrain, Dark Visions riesce a coniugare bene una linea melodica anni ’80 con suoni rock marcati. Notevole l’interpretazione di Thomson.
25 (Reprise) è la reinterpretazione in chiave semiacustica – se non fosse per il tappeto di tastiere sarebbe un unplugged – di 25. Nulla di più di un simpatico divertissment.
La cadenzata Warning Sign prosegue nel crossover tra indie e stoner addolcito da melodie dai richiami pop.
Chiude la dolce e malinconica Georgia, accostata da vari recensori in maniera malaccorta a Hotel California degli Eagles. In realtà la somiglianza al classico della grande band statunitense si ferma al giro armonico arpeggiato. Ma, se si considera il ritmo decisamente più spedito (il brano non è una ballad) e il refrain decisamente pop, il paragone più corretto è con i Rem vecchia maniera. Detto altrimenti, non basta citare per essere accusati di copiare.
Giovani, energici e d’impatto, i The Amazons riescono a confermare con Future Dust il loro valore artistico di grande promessa del rock.
Certo, non siamo di fronte a un album destinato a rivoluzionare la storia della musica, ma a poco più di quarantacinque minuti di buone vibrazioni, che ricordano, e bene, agli ascoltatore che il rock è impatto ed energia. Il che non è poco.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale dei The Amazons
Da ascoltare (e da vedere):
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