Wolf God, l’epic metal secondo i Grand Magus
Il power trio scandinavo torna con un album carico di suggestioni mitologiche e pieno di omaggi alla tradizione degli anni ’80
Ancora metal scandinavo. Ancora metal efficacissimo.
Gli svedesi Grand Magus tornano con l’ottimo Wolf God, uscito nella tarda primavera per la Nuclear Blast, e completano il percorso artistico che li ha portati dal doom degli esordi d’inizio millennio all’attuale metal classico, pieno di riferimenti all’epic e di rinvii agli anni ’80.
Certo, non abbiamo a che fare coi Manowar o i Virgin Steele, Ma per fortuna neppure con qualche loro epigono.
Il trio di Stoccolma – composto dal cantante-chitarrista Janne Christoffersson, dal bassista Mats Skinner e dal batterista Ludwig Witt – conferma la sua proposta musicale semplice e diretta, fatta di brani concepiti per essere suonati dal vivo, in cui l’impatto sonoro (ed emotivo) prevale sulla ricercatezza compositiva o degli arrangiamenti.
Inutile, quindi, cercare originalità e spunti innovativi, in Wolf God come in tutta la loro produzione precedente: il punto di forza del terzetto è l’adesione ai canoni del metal più classico, riproposto con un rigore al limite della maniacalità filologica.
Gold And Glory, un breve strumentale introduce l’ascoltatore nell’immaginario del trio, canonico quanto la musica, con melodie folk eseguite da un’orchestra che evocano le antiche tradizioni norrene.
Wolf God, la title track, ripropone (benissimo) i cliché che fecero appassionare all’epic metal torme di adolescenti degli anni ’80: tempi cadenzati e marziali, riff potenti e melodie maestose, ben interpretate da Christoffersson, che si lancia anche in un buon assolo di chitarra.
Più movimentata, a Hall Clad In Gold si regge su riff più veloci e si snoda su cambi di tempo e di atmosfera efficaci, fino alla dissolvenza finale melodica e carica di atmosfera.
Brother Of The Storm rievoca più cupa la lezione dei Manowar, arricchita da citazioni del viking metal grazie a un riffing più oscuro che fa da cornice all’interpretazione enfatica del frontman.
Più orientata al viking la cadenzata Dawn Of Fire, in cui il cantato epico e arioso si amalgama bene con gli arrangiamenti decisamente dark.
La veloce Spear Thrower è un tuffo nel metal classico più ottantiano, tutto potenza e melodia.
Ancora epic nella varia To Live And Die In Solitude, che presenta una partitura più complessa, piena di cambi di tempo e controtempi, gestiti con precisione chirurgica.
Maestosa e marziale, con qualche riferimento doom, Glory To The Brave è un’altra incursione nella mitologia guerresca.
Pesante e chiaroscurata, He Sent Them All To Hel è un altro tuffo negli anni ’80, in cui fanno capolino anche i Kiss, grazie al coro americaneggiante.
Chiude l’heavy metal pesante di Untamed, un altro omaggio ai classici del genere.
Diretti, sobri e tosti, i Grand Magus riescono a convincere con un buon album diretto a quel pubblico di over quaranta che ha avuto la possibilità di accostarsi alla tradizione del metal più canonico ma anche ai più giovani, per i quali il decennio di latta è un ricordo sfumato, come lo erano gli anni ’60 e ’70 per i loro genitori e fratelli maggiori.
Esistono artisti con la vocazione del ricordo. E proprio questo è il caso dei Grand Magus, a cui va dato un merito da non poco: la capacità di tener viva la memoria dell’heavy metal senza finire nella musealizzazione.
Non è davvero poco.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale dei Grand Magus
Da ascoltare (e da vedere):
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