A Rock Supreme, torna l’hard basic dei Danko Jones
Squadra vincente non si cambia: il power trio canadese sforna un nuovo album in bilico tra rock duro, garage e punk, tutto potenza e divertimento
Il titolo contiene una citazione colta, per quanto impropria. Lo sappiamo perché la band lo ha dichiarato in più di un’intervista, con l’aria di rivelare chissà che segreto: A Rock Supreme, il nome dell’ultimo album del power trio canadese Danko Jones, uscito di recente per Afm Records, è una storpiatura affettuosa di A Love Supreme dell’immortale John Coltrane.
Inoltre, sappiamo che le undici canzoni che compongono l’album non aggiungono una virgola alla ricetta che da oltre vent’anni la band propina al suo pubblico: un mix ruvido di garage, hard e punk rock. Alla quale, stavolta, la produzione di Garth Richardson (noto per le attrezzature vintage del suo studio e per il lavoro con Rage Against The Machine, Red Hot Chili Peppers, Rise Against e Biffy Clyro) conferisce quel po’ di impatto in più.
Sappiamo, infine, che il trio canadese non ha alcuna intenzione di rinnovare la sua proposta: perché è il classico cavallo vincente che non si cambia o perché quella per il rock ’n’ roll più viscerale è una passione invalicabile? Forse la verità sta nel mezzo: è difficile immaginare i Danko Jones darsi al progressive alla Rush perché non sarebbe questa la loro attitudine ed è altrettanto difficile immaginare il loro pubblico, che li segue fedelmente ed è cresciuto nel corso degli anni, pretendere altro da loro.
Fedele da sempre a una linea interpretata con grande coerenza, la band ha subito solo dei cambiamenti nella line up, piuttosto instabile nella sezione ritmica, in cui si sono avvicendati sei batteristi. E solo adesso sembra che le cose si siano stabilizzate, visto che Rich Knox è fisso alle pelli dal 2013 e accompagna più che egregiamente il leader frontman Danko Jones, che continua a infiammare le platee con la sua Gibson Diavoletto e il suo vocione, e il fido bassista John Calabrese, che è tale non solo di nome, essendo emigrato in Canada ragazzino dalla sua Cosenza.
Veniamo alla musica.
Non è solo per modo di dire che I’m In A Band apre le danze: il pezzo, grazie a un riff minimale e a un ritmo trascinante marcato dall’uso efficace del campanaccio è a dir poco irresistibile. Difficile non muovere il piede mentre Jones canta: «I’m in a band/and i love it», una vera e propria dichiarazione d’amore alle proprie scelte di vita.
In I Love Love il trio sposta il tiro verso sonorità più garage, grazie al ritmo rozzamente accelerato e all’approccio stoner decisamente settantiano.
Stesso approccio nella movimentata We’re Crazy, che alterna un refrain minimale marcato dal riffing volutamente grezzo a un ritornello più arioso e in leggero crescendo.
Dance Dance Dance mantiene alla grande quel che promette nel titolo: è un tormentone ballabile dall’andamento vagamente funky caratterizzato da un gran tiro ritmico e dagli ammiccamenti anni ’80.
Con Lipstick City si torna su versanti più garage-rock ’n’ roll, affrontati col solito piglio ruffiano e trascinante.
Ancora rock ’n’ roll in Fists Un High, in cui riemerge qualcosina dei Thin Lizzy dei primi anni ’80.
Tosta e ballabile, Party è un inno al disimpegno e al divertimento più puri, grazie a un bel giro armonico, a un refrain accattivante e a un coro a dir poco puttano.
You Got Today è un altro tuffo negli anni ’80: uno shuffle tiratissimo con una bella parte di chitarra che omaggia i Van Halen (e non a caso vari addetti ai lavori vi hanno intravisto più di un richiamo a Hot For Teacher di Lee Roth e soci).
Nella cadenzata e minimale That Girl riaffiora l’eredità del grande Phil Lynott, di cui Jones parafrasa anche (e bene) il particolare stile vocale.
Con Burn In Hell il trio tocca l’apice più heavy dell’album: un bel pezzo tirato che si regge su una parte di batteria semplice e forsennata, un riffing pesante e un cantato più urlato degli standard abituali.
Chiude il garage punk tirato di You Can’t Keep Us Down nel duplice segno del minimalismo e dell’impatto sonoro.
A questo punto non si può proprio fare a meno di menzionare il bell’artwork grafico di Ulf Lunden (illustratore già al servizio di Bombus, Europe e Graveyard), che consegna ai fan dei Danko Jones una copertina fantastica che vale un dodicesimo brano.
Che dire, in sintesi di A Rock Supreme? Per commentarlo, è da evitare la vecchia storiella secondo cui il vero rock, di cui il power trio canadese sarebbe tra gli interpreti più genuini, non avrebbe bisogno di fronzoli (leggi: virtuosismi e finezze strumentali). Semmai, è più corretto dire che, nel vero rock, c’è chi riesce a destreggiarsi con le raffinatezze e chi, invece, può farne a meno. Quest’ultimo è proprio il caso dei Danko Jones, che sono riusciti a restare sulla breccia e a restare semplici.
Per molti potrebbe essere incapacità di evolversi. Per altri, e noi tra questi, è semplice coerenza, una virtù rara anche nel mondo delle arti. Per questo i tre canadesi sono da apprezzare.
E da ascoltare.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale dei Danko Jones
Da ascoltare (e da vedere):
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