Quel rock dal deserto targato Negrita
Desert Yacht Club, undici brani onesti e coinvolgenti per l’ultimo album della band aretina, sound Usa in lingua italiana
Prima ancora che un titolo, Desert Yacht Club è un luogo particolare nel deserto californiano, vicino a Joshua Three, che ispirò l’omonimo, famosissimo album degli U2 (quelli veri). È una specie di oasi creativa, realizzata dall’artista napoletano Alessandro Giuliano, dove, a sentire i comunicati e le interviste lanciati a profusione, i Negrita hanno recuperato il proprio slancio musicale dopo una fase di stasi creativa.
Il prodotto di queste session americane è, appunto Desert Yacht Club, il decimo album in studio della band aretina uscito per la Mercury a marzo.
La ventata di novità c’è tutta, anche se occorre ben distinguere il rinnovo creativo dalla creatività tout court, che non è proprio il forte dei toscanacci, che si presentano al pubblico con la loro ultima formazione, in cui i tre fondatori (il cantante-chitarrista-armonicista Paolo Pau Bruni e i due chitarristi Enrico Drigo Salvi e Cesare Mac Petricich) coesistono in buon amalgama col bassista Giacomo Rossetti, il tastierista-violoncellista Guglielmo Ridolfo Gagliano e il batterista Cristiano Dalla Pellegrina.
Ma la creatività a tutti i costi non è un obbligo per un gruppo come i Negrita, che ha il suo punto di forza nella coerenza stilistica, in quelle sonorità toste ma non dure e nella strizzatina d’occhio al mainstream, coronata dal successo dello scorso decennio e praticata anche attraverso le collaborazioni con Luciano Ligabue.
Meno tragici e civettuoli dei Negramaro, i Negrita sono l’altra faccia della medaglia del rock italiano. Loro, a differenza dei pugliesi, non hanno cercato di contaminare i suoni e le melodie mediterranee col rock. Semmai, l’esatto contrario: hanno tradotto per il pubblico italiano il sound americano.
E le undici canzoni di questo nuovo album sono la riproposizione fedele di questa formula. Anzi, di questa attitudine, che resta rock sebbene sporcata dall’elettronica e dai campionatori.
Certo, è il rock prodotto da ultraquarantenni, il frutto maturo di un approccio musicale che diventa esistenziale. Lo ribadiscono la godibile Siamo ancora qua, che apre l’album, e Scritto sulla pelle, uno dei due singoli apripista.
Ma la riflessione esistenziale è anche nostalgia, spiegano i Nostri in Non torneranno più, un affettuoso amarcord dei vent’anni dell’ultima generazione di artisti che si sia confrontata con i classici. E la nostalgia non è necessariamente malinconia perché, appunto La rivoluzione è avere 20 anni.
Tutto questo sebbene la ricerca del successo e del piacere possano essere molto duri e pretendano cari prezzi, come ci ricorda Milano stanotte. L’importante è avere voglia di fare e ribellarsi quando è giusto, ripete l’altro singolo, Adios paranoia.
E allora? Non resta che vivere Aspettando l’alba. Magari immergendosi nelle sonorità dei Negrita, che riescono a convincere un po’ tutti. Anche chi li ha solo ascoltati di fretta in radio o in tv. Rock on, anche se poppeggiante e nazionalpopolare.
(foto di Dara Munnis)
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