The Verdict, i Queensryche colpiscono duro
Il quindicesimo album in studio della band di Seattle conferma il nuovo corso intrapreso sette anni fa con l’ingresso di Todd La Torre: brani più asciutti e duri, con il pathos di sempre e con uno sguardo deciso al metal contemporaneo
Duri e maestosi come nei gloriosi ’80, ma con la loro nuova propensione a sperimentare, non più al di fuori del metal, come negli ultimi album con Geoff Tate, ma al suo interno.
E ciononostante non si può dire affatto che i Queensryche siano una nuova band o un’altra band, perché il loro recentissimo The Verdict, pubblicato dalla Century Media Records, conferma la dedizione del gruppo di Seattle alle (ritrovate) sonorità metal, dopo quindici anni di escursioni – neanche del tutto sbagliate, a giudicare col senno del poi – nel grunge e nell’art rock.
Non è proprio il caso di fare paragoni tra Todd La Torre e il titanico Tate: la mancanza del fascino e della personalità della ex grande voce del rock non si è fatta sentire nel songwriting dei Ryche, diventato decisamente più compatto e primo di divagazioni aor e class, e la giovane età del sostituto porta quel vento di freschezza e di capacità tecnica che la vocalità declinante del suo illustre predecessore non riusciva più ad assicurare (e non a caso i maligni hanno insinuato che i tentativi pop fossero dovuti anche all’incapacità di Tate, constatabile dal vivo, di raggiungere i picchi del passato).
Detto questo, The Verdict è l’album della seconda maturità dei Queensryche, in cui la matrice prog e le basi metal sono sapientemente declinate in un’ottica contemporanea, e in cui riaffiorano le suggestioni grunge del passato non più recente e si fa sentire una certa propensione verso il nu metal, sapientemente diluita nell’eleganza sonora di sempre.
In pratica, è come se il metal tosto e asciutto di Queensryche (2013) e i sofisticati esperimenti prog di Condition Human (2015) avessero trovato un’efficacissima sintesi, forse anche grazie al contributo di Chris Harris detto Zeuss, storico produttore di Rob Zombie, Iced Earth e Hatebreed.
The Verdict parte alla grande con Blood Of The Levant, che ribadisce l’impegno politico dei Queensryche, iniziato con Operation: Mindcrime: il brano, dedicato alle guerre in Medio Oriente, è un solido pezzo a cavallo tra power metal e prog, in cui la band dà una grande prova d’assieme e ribadisce l’ottimo amalgama tra i fondatori superstiti (lo storico chitarrista Michael Wilton e il bassista Eddie Jackson) e i membri giovani (il menzionato La Torre e il chitarrista Parker Lundgren). Al riguardo, è da segnalare l’ottima performance del cantante anche alla batteria (tra l’altro il suo primo strumento) in temporanea sostituzione di Scott Rockenfield, in periodo sabbatico per motivi familiari.
Il seguente Man The Machine, primo singolo apripista dell’album, è un classico brano rycheiano, nella struttura tosta e sostenuta, nel riffing duro e maestoso e nel refrain arioso e melodico quel che basta. Notevole la performance vocale di La Torre, che rievoca le performance del Tate di Rage For Order senza rinunciare alla propria timbrica personale, più metal e meno melodica. Ottime le parti soliste, evocative e mai eccessive.
Inquietante ed ipnotica, Light-years ricorda un altro aspetto dei Queensryche, finito in secondo piano nel corso degli anni: le melodie arabeggianti e le armonie più sofisticate che rimandano di nuovo a Rage For Order, per la precisione a The Whisper, Neue Regel e London, ma senza le suggestioni tech (futuribili allora, a cavallo degli ’80, ma che oggi suonerebbero vintage) e con un’inflessione decisamente più metal. Anche le vaghe citazioni psichedeliche delle parti strumentali rinviano all’immaginario sonoro classico della band, ma in un contesto decisamente post moderno.
L’attitudine arabeggiante prosegue nella varia Inside Out, che si caratterizza per i cambi di tempo e gli stop and go tra le strofe e i cori. In questo caso, il riferimento è da ricercarsi nell’intimista Promised Land.
La durissima Propaganda Fashion rinvia invece ai Queensryche più grunge (per capirci, quelli di Hear In The Now Frontier e Q2K), ma con un sound più cupo, tempi accelerati e molta meno di quella solarità che a suo tempo fu rimproverata alla band come un tradimento, dai fan e dagli addetti ai lavori.
Dark Reverie, secondo singolo apripista, rappresenta il nuovo modo in cui la band – in passato autrice dell’acustica I Will Remember e della superhit Silent Lucidity – concepisce oggi le ballad: niente atmosfere rarefatte, ma forte densità sonora, cambi di tempo e grande respiro dinamico.
I tempi dispari e i continui cambi di ritmo e atmosfera di Bent, ribadiscono invece l’anima più prog della band con un perfetto equilibrio tra cori epici, refrain a volte duri e a volte ariosi e sequenze complesse.
Ancora riff orientali, impreziositi dalle nervose inserzioni delle chitarre, nella cadenzata Inner Unrest, in cui La Torre lancia acuti a più non posso per rimarcare che la sua voce è ora il dop dei nuovi Queensryche.
Launder The Conscience è un altro esempio di prog alla Queensryche, arricchito dagli arpeggi di pianoforte nella parte finale, che contrastano piacevolmente col contesto piuttosto duro del brano.
Chiude l’evocativa Portrait, una ballad piena di suggestioni dark caratterizzata da una dinamica molto controllata (infatti, a dispetto del bridge in crescendo, il brano non esplode mai) e da un gran coro.
I Queensryche confermano con The Verdict la validità del corso artistico intrapreso con l’ingresso di La Torre: brani più asciutti e duri per venire incontro alle richieste delle platee metal, che poi sono quelle rimaste fedeli negli anni, ma senza ammiccamenti e ruffianate.
È improprio dire che i padri del prog metal sono tornati. In realtà, non se n’erano mai andati. Solo che, da qualche anno a questa parte, hanno imboccato la direzione giusta e si sente. Eccome se si sente.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale dei Queensryche
Da ascoltare (e da vedere):
28,974 total views, 2 views today
Comments