Blowout, i cattivissimi alfieri del southern metal
Il quartetto trentino torna al pubblico con Buried Strength, il suo secondo durissimo album, in cui i Pantera incrociano i Black Sabbath
Tornano, a due anni dall’album d’esordio Volume 1 (2015, Metamorfosi), i trentini Blowout, con il loro mix micidiale di stoner, death e southern metal.
Il loro nuovo lp, uscito a metà settembre si intitola Buried Strength (alla lettera Forza Sepolta) ed è difficile immaginare un contenuto più aderente al titolo: l’album si compone di otto brani violenti, cadenzati e claustrofoci, zeppi di tempi doom, che dilatano l’aggressione sonora.
Dopo vari cambi di formazione, il quintetto è riuscito a stabilizzarsi e, attualmente, risulta composto dal cantante Igor Rossi, dotato di un vocione impressionante, dai chitarristi Giuseppe Fontanari e Andrea Avancina, dal bassista Lorenzo Helfer e dal batterista Michele Mattuella.
I cinque, rodati da un’intensa attività live, picchiano duro e, come tutti i postmetallari, più vanno avanti più incattiviscono il suond, al contrario di quel che avveniva prima, dove con l’esperienza si tendeva ad ammorbidire.
Infatti, Buried Strength, non concede tregua all’ascoltatore. Si inizia con il mid tempo di Cheers in Hell (che vuol dire Brindisi all’inferno, a proposito di titoli azzeccati), carica di atmosfere sulfuree esaltate dalla ritmica massiccia e dai riff squadrati.
La successiva Slum ha qualche apertura melodica nelle strofe e un incedere sabbathiano (intendiamoci, nel senso dei Black Sabbath più doom). Sulla stessa linea Feel the Phantom Pain, che ricorda, grazie anche alla timbrica cattiva di Rossi, anche alcune cose dei Judas Priest dell’era Tim Owens, mentre nell’assolo leggermente jazzato e miagolante riemerge qualche eco del Tony Iommi che fu.
In Be Divided Be Ruled, invece, fanno capolino i Pantera più cattivi. Identico discorso per Stomp of Fire, in cui imbraccia la chitarra come special guest il mitico Dario Kappa Cappanera, membro storico della Strana Officina e roadie per tantissimi artisti, tra cui Zucchero, Prince e Vasco.
Cattivissima Ghost Shadow, dai tempi rallentati e dal coro lacerante. Dopo la darkeggiante title track, l’album termina con Scars of the Road, anch’essa un doom da manuale, corretto da qualche accenno di psichedelia.
Compatti, corposi e duri, i Blowout si confermano una band in crescita artistica e pronta per il salto di qualità definitivo. Gli otto brani, reggono bene oltre il primo ascolto: solidi ben strutturati e basati più sull’effetto d’insieme che sul virtuosismo dei singoli. Ottimi e frequenti i cambi di tempo, misurati e lancinanti gli assoli, lasciano nell’ascoltatore che riesce a sentirli tutti di fila senza tentennare un misto di adrenalina e, a volume spento, persino di sollievo.
Da ascoltare, se possibile anche in concerto, dove chi li ha ascoltati definisce i Blowout delle furie. E, a giudicare da Buried Strength, è difficile dargli torto.
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