Gli Europe martellano ancora
Walk the Heart è l’ultima avvincente avventura sonora per la band svedese, che sfoggia un metal duro e a tratti dark
È seccante, ancor prima di ascoltare Walk the Earth, l’ultimo album degli Europe, leggere lanci e recensioni in cui riaffiora il paragone con gli anni ’80 e con The Final Countdown.
Meglio chiarire: gli anni ’80, per quanto possa dispiacere ai nostalgici, non solo sono passati ma sono lontani. E gli Europe, che si sono regolati di conseguenza, possono tranquillamente essere giudicati per la musica che suonano ora: heavy metal. E la suonano da un bel pezzo, cioè da Start from the Dark (2004), il primo album dalla reunion del 2003 in cui, tra l’altro, si registra il rientro di John Norum, il chitarrista originale della band svedese.
In quest’ottica, risultano anche fuori luogo i paragoni con il precedente, splendido, War of Kings (2016), perché Walk the Earth fa storia a sé e la fa bene, pur muovendosi nello stesso contesto sonoro, se si vuole in direzione più estrema. Beninteso: nella misura in cui l’aggettivo possa appiccicarsi ai compassati scandinavi.
Questo album è decisamente più heavy sia di War of Kings, dove comunque restavano i cori ariosi e i refrain melodici per cui la band era diventata celebre sin dai tempi in cui spadroneggiava nelle radio e vendeva a milionate, sia di Bag of Bones (2012), caratterizzato da una vena americaneggiante.
Walk the Earth non solo è tosto ma è decisamente cupo. I riff di Norum sono più pesanti e i suoi soli più sporchi che mai e la ritmica del bassista John Léven e del batterista Ian Haugland martella da matti. Una particolarità, che forse non è stata ancora notata: le tastiere di Mic Michaeli, che negli anni ’80 trainavano il sound della band e poi sono passate in secondo piano, sono un po’ più presenti che nel passato recente: basta ascoltare il delicato assolo di pianoforte di Pictures, l’unica ballad dell’album, tra l’altro nient’affatto sdolcinata ma piena di richiami ai Pink Floyd dell’era Waters. Tuttavia, in questo caso, i tasti d’avorio non alleggeriscono né addolciscono l’impatto sonoro, semmai lo rendono più dark.
Il pezzo forte dell’album è la title track, un brano possente, cadenzato e dai marcati toni epici, che evocano i Rainbow e, non storcano il naso i puristi, i Black Sabbath dell’era Ronnie James Dio e Tony Martin. Ecco: se qualcuno volesse ancora insistere a trovare tracce degli anni ’80 nel sound degli Europe, è qui che deve cercare. E la vera rivelazione è proprio la voce di Joey Tempest, che ha avuto una bella evoluzione: non più squillante e cristallina come in passato, anche dopo la reunion, ma leggermente roca e potente e in grado di competere con le nuove leve cresciute a pane e Ronnie James.
Sabbathiana anche The Siege, in cui tastiere e chitarra disegnano atmosfere vagamente arabe (qualcuno ricorda Seventh Star?). Più dinamica Kingdom United, dove la band dà una prova strumentale a dir poco superba, con stacchi all’unisono di chitarra, bass e tastiera e il cantato in controtempo sul riff.
Sul fronte dell’ispirazione Rainbow (non dimentichiamo che Ritchie Blackmore è stato il primo amore di Norum e l’ispiratore di almeno una generazione di rocker scandinavi) e Uriah Heep si segnala l’epica Election Day.
Dopo le tiratissime Wolf, Haze e Whenever You’re Ready l’album si conclude con la bella Turn to Dust, che parte come una ballad ed evolve in un crescendo che concede poco all’orecchiabilità ma culmina in una parte strumentale carica di pathos, quasi a commentare i titoli di coda di un dramma.
Walk the Heart, con le sue tematiche guerriere e impegnate è un album non facile, meno immediato rispetto a quello a cui gli Europe ci hanno abituati. Con tutta probabilità, è il classico disco che si apprezza davvero solo dopo alcuni ascolti attenti. Come un vino raffinato, che i palati fini e ben addestrati riconoscono al volo ma capace di farsi apprezzare anche dai gourmet meno attrezzati.
E le tutine in spandex, i boccoli platinati e cotonati? Non si preoccupino le ragazzine di ieri, tra le quali forse ci sono non poche milf di oggi: non le critichiamo. Anzi: hanno fatto bene, allora, a spingere gli svedesoni in classifica e a sbavargli appresso come fino a poco prima facevano con i Duran Duran e gli Spandau. Senza quel fiume di quattrini, che solo le cotte adolescenziali potevano assicurare, non avremmo gli Europe di oggi. Quelli veri.
Da ascoltare (e vedere):
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