La Pfm ritorna grande e ruffiana con Emotional Tattoos
I padri del progressive italiano strizzano l’occhio al mercato internazionale e fanno il verso ai Genesis
Quando si ha a che fare con un’istituzione musicale come la Premiata Forneria Marconi, che in questo caso torna a incidere dopo 14 anni, emergono due tentazioni: la prima è l’apologia, corredata dalle consuete ricostruzioni della quarantacinquennale storia del gruppo; la seconda è la critica a prescindere, in cui si diletta di solito la stampa specializzata.
Nel caso di Emotional Tattoos (Inside Out Music, 2017), l’ultima, strombazzatissima uscita dei colossi milanesi è necessario evitare entrambe le trappole e, prima di dare un giudizio, ascoltare attentamente questo curioso album doppio, costituito da 22 canzoni, 11 per cd, il primo in inglese, il secondo in italiano.
In effetti, l’operazione sa un po’ di ruffianata, visto che sono gli stessi brani in doppia versione: evidentemente, in questa scelta ha pesato, da un lato, il desiderio di rilanciarsi a livello internazionale, e quindi di rinverdire i fasti dei gloriosi anni ’70, e, dall’altro, l’esigenza di non perdere il pubblico italiano.
Altra considerazione importante: abbiamo parlato di istituzione e non di gruppo o band, perché della Pfm originale restano i soli Franz Di Cioccio, nel consueto ruolo di cantante-batterista, e il superbassista italo-francese Patrick Djivas. Gli altri compagni di avventura sono tutti o delle due generazioni successive – come il polistrumentista Lucio Fabbri, che si divide tra violino, chitarra e tastiera, e il batterista Roberto Gualdi, classe ’67 – o sono under 40, come il chitarrista Marco Sfogli e il tastierista Alessandro Scaglione. Come a dire: i nonni, i figli e i nipoti.
È chiaro che in questa situazione non si può parlare più di gruppo, ma, al più, di scuola.
E allora, prima di esprimere un giudizio, occorre porsi due domande.
La prima: funziona? Possiamo rispondere subito: sì, anche bene.
La seconda: il mix tra esperienza ed energie fresche, può dare un risultato originale? Qui le cose si complicano, perché in effetti il rischio di ascoltare idee vecchie con suoni nuovi o, peggio, di assistere a una messa in scena finto-vintage, è tutt’altro che remoto.
Detto questo, Emotional Tattoos, vale la pena di più ascolti, soprattutto nella versione inglese, che convince di più, sia perché è evidente che i due anziani volponi hanno mirato a un’operazione internazionale (e non a caso, hanno inciso per la stessa etichetta che cura le tigri emergenti del progressive e del power metal europeo), sia perché i testi italiani, curati dal cantautore ravennate Gregor Ferretti, non sono proprio il massimo.
Giusto per fare un esempio, prendiamo il primo brano dell’album (We’re not an Island/Il Regno): mentre nella versione anglosassone si ha l’impressione di ascoltare un brano che strizza un po’ l’occhio ai Genesis e un po’ alla world music – e c’è da dire che Di Cioccio, non si sa quanto involontariamente, fa il verso a Peter Gabriel e a Phil Collins – in quella italiana l’effetto ricorda decisamente certo pop rock griffato che andava negli anni ’80, in cui si è esercitata anche la Pfm. Stesso discorso per i due brani seguenti (Morning Freedom/Oniro e The Lesson/La Lezione): gran tiro nel cantato inglese, metriche strettine in quello italiano.
Ovviamente, non c’entra nulla il fatto che il rock rende meglio in inglese, perché generazioni di artisti e, di recente, anche le nuove leve, su tutti i Negramaro, hanno dimostrato che si può rockeggiare alla grande anche in italiano. Semmai, lo ripetiamo, il problema è che quest’album è stato pensato in inglese e quindi sconta non irrilevanti problemi di traduzione.
E il prog? C’è, non preoccupatevi. C’è tutto il prog che possono pensare delle vecchie glorie che non devono dimostrare più nulla a nessuno e che possono suonare dei giovani leoni senza dover sacrificare l’esigenza di esprimere il proprio virtuosismo.
Notevolissime, al riguardo le performance di Sfogli, che si lancia in assoli micidiali dal sound aggressivissimo. Nel suo caso, il paragone con l’antipatico Francesco Mussida, icona della chitarra italiana e membro storico della Pfm, è fuori luogo: scegliendo il virtuoso napoletano, Di Cioccio e Djivas hanno dimostrato di voler davvero voltare pagina e orientarsi al rock del XXI secolo.
Superprog è addirittura A day we share/La danza degli specchi, che rende bene in entrambe le versioni, forse perché è il brano più Pfm di tutti, e quindi a nostro giudizio il migliore: controtempi, cantato su ritmiche impossibili, arrangiamento virtuosistico, che strizza l’occhio agli anni ’70 senza scadere nel nostalgismo.
E, a proposito di virtuosismi, che dire di Freedom Square, l’unico strumentale dell’album? In questo pezzo i Nostri ci danno alla grande, soprattutto si scatena al violino Lucio Fabbri, che sciorina passaggi tostissimi alla Jean Luc Ponty. Parlare di rock, in questo caso, è troppo poco: come ogni grande scuola, la Pfm dà una lezione di musica seria, mescolando suoni duri, atmosfere world e ritmiche fusion.
Gradevole e stimolante anche il contrasto tra la delicatezza degli arpeggi di pianoforte e i riff di chitarra metal in I’m Just a Sound/Dalla Terra alla Luna.
Non dispiace, infine, la chiusa di It’s My Road/Big Bang, dove l’ospite speciale Stefano Bollani improvvisa un assolo di pianoforte jazzatissimo su un riff funky rock. C’è da dire che questa soluzione non è il massimo dell’originalità (qualcuno ricorda Rosanna dei Toto?) ma resta un valido happy end per un album che, a voler parafrasare il titolo, emoziona ma non tatua. Almeno, non come vorrebbero Di Cioccio e Djivas, che hanno subissato mezzo mondo di interviste e comunicati celebrativi.
Ad ogni buon conto, la Pfm è tornata ed è tornata bene. Per restare? Non sappiamo, ma l’annuncio di un tour mondiale fa sperare nelle energie dei due fondatori, entrambi over 70.
Buon ascolto, Emotional Tattoos vale davvero la pena.
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