Da Ozzy alla riscoperta dei ’70: tornano i Red Dragon Cartel
Nel recentissimo Patina, Jake E. Lee accantona i virtuosismi e riscopre il groove del rock blues d’epoca, riletto in chiave heavy
Un titolo italiano per un album metal intriso di southern rock che più ruvido non si può: Patina, che è poi il secondo, recentissimo album dei Red Dragon Cartel, la band di Jake E. Lee, già chitarrista virtuoso alla corte di Ozzy Osbourne e poi leader-animatore dei Badlands, band meteora dei secondi anni ’80 che ebbe il merito di lanciare il seventies revival con un buon anticipo rispetto allo sleaze più commerciale di Guns ’N’ Roses e LA Guns.
In questa scelta avrà senz’altro pesato l’etichetta discografica, cioè la napoletana Frontiers, specializzata nel recupero e nella rivitalizzazione delle vecchie glorie della scena rock mondiale.
Il progetto del chitarrista nippo-americano si ripresenta al pubblico con la sezione ritmica parzialmente rinnovata: l’ex Skid Row e Saigon Kick Phil Varone ha preso il posto del canadese John Farley e il bassista Anthony Esposito (già nei Lynch Mob) ha rilevato il posto di Ronnie Mancuso.
È invece confermato Darren James Smith (ex Harem Scarem), frontman dalla vocalità rude e possente, che contribuisce a caratterizzare non poco il songwriting di Lee, palesemente ispirato al rock settantiano.
Inutile ricordare, al riguardo, i trascorsi da shredder del Nostro, se non per risaltare la scelta vincente di mettere in secondo piano i virtuosismi e di concentrarsi sulla composizione e sulla tenuta dei brani, a tutto beneficio degli ascoltatori.
Un segno dei tempi che cambiano, visto che il funambolismo ha trovato un terreno decisamente più fertile nel prog e nel power metal. Non che le belle prestazioni chitarristiche manchino: tutt’altro. Ma sono misurate e contenute al servizio della forma canzone, che contribuiscono ad abbellire e completare.
E questo spiega il riffing serrato e senza fronzoli, che caratterizza tutto l’album, grazie anche alla produzione massiccia di Lee coadiuvato al mixer da Max Norman, già mago della consolle per Megadeth, Savatage e Osbourne.
La tosta Speedbag apre le danze con la forza di un pugno: il basso distorto e la chitarra fanno un tutt’uno con un riff essenziale e duro, che si snoda su un tempo spedito e culmina in un assolo dagli echi settantiani. Notevole la prova di Smith, a suo agio sia nelle parti hard che in quelle più psichedeliche (in particolare il coro).
Havana è un rock blues dai toni southern, caratterizzato da un bel riff su un tempo boogie sostenuto e in cui Smith si diverte a fare il verso a David Lee Roth. Ruvido e viscerale l’assolo di chitarra, in cui il blues feel esaltato dall’uso a dir poco esagerato del wha wha prende il posto del virtuosismo.
Crooked Man è più vario e meno compatto: dopo un attacco zeppeliniano il brano evolve strizzando l’occhio alla psichedelia e al grunge. Notevole la parte solista, in cui Lee si diverte con fraseggi a tratti zappiani.
Piuttosto zeppeliniana anche The Luxury Of Breathing, che tuttavia si concede delle aperture ariose nel coro a mo’ di alleggerimento rispetto al riffing serratissimo.
Bitter inizia con un boogie forsennato che ricorda Stevie Ray Vaughan in chiave metal ma si sviluppa su un mid tempo carico di groove.
Gli echi psichedelici prevalgono in Chasing Ghosts, un pezzo dall’andamento cadenzato che cresce in maniera forsennata nella parte strumentale.
A Painted Heart è una ballad sognante ma non languida, nella quale l’approccio ruvido della band, ma soprattutto del cantante, riesce comunque a farsi sentire. È lenta ma non è un lento, insomma.
La rumorosa Punchclown, introdotta da una chitarra che più trucida non si può, è la prima bonus track della versione cd dell’album: un divertissment in chiave southern dai toni psichedelici che non aggiunge e non toglie una virgola a quanto ascoltato sinora.
Sinuosa e sensuale, My Beautiful Mess ricorda a tratti alcune produzioni del David Bowie anni ’90 grazie al suo incedere irregolare e sofisticato e al riff vagamente funkeggiante.
A proposito di psichedelia, non si possono sottacere i riferimenti eastcostiani e i rinvii ai Doors di cui trabocca Ink & Water che chiude l’album tra sonorità dure e arrangiamenti retrò, soprattutto della chitarra di Lee, che sembra uscita da una macchina del tempo programmata sugli ultimi anni ’60.
Il commiato è affidato a Havana B.C., la seconda bonus track, una versione unplugged di Havana decorata con garbo dal fiddle e dalla slide guitar, giusto per far riposare le orecchie.
Anche senza (troppi) virtuosismi, Patina è un album importate, perché risulta un tentativo efficace e riuscito di rivitalizzare il metal, altrimenti divorato dai suoi tanti sottogeneri. Jake E. Lee forse non ha abbandonato del tutto l’approccio virtuoso, ma di sicuro ha mollato i brillanti toni hair che ne caratterizzavano gli inizi di carriera.
Magari il suo non sarà il metal del futuro, ma resta comunque una buona indicazione sulla strada da seguire per tentare cose nuove in una scena rock sempre più satura.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale dei Red Dragon Cartel
Da ascoltare (e da vedere):
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