Delgrès, un viaggio alle origini del blues creolo che parla francese
Mon Jodi è l’album d’esordio del trio parigino, dedicato all’eroe mulatto della resistenza antinapoleonica a Guadalupa. Undici brani di root blues che rimandano a New Orleans e ai Caraibi più afro
Blues e ribellione. O, come dicono loro stessi, il blues del Mississipi e il lamento dei Caraibi.
Nome più adatto, non potevano sceglierselo: Delgrès, in omaggio a Louis Delgrès, il miltare creolo che si ribellò a Napoleone, colpevole a suo giudizio di aver tradito gli ideali della Rivoluzione per aver ripristinato la schiavitù a Guadalupa.
Perché la Francia riabilitasse questo particolare eroe mulatto, morto in battaglia contro i soldati della Madrepatria, e lo inserisse nel suo Pantheon ci sono voluti quasi due secoli.
Qualche anno in più è servito perché la figura del ribelle diventasse anche un logo musicale.
I Delgrés sono un interessantissimo trio creolo di stanza a Parigi, fautore di un particolare root blues, interpretato con perizia e minimalismo e con risultati originali, dovuti sia al prevalente uso del francese, sia alla scelta degli strumenti, acustici ed elettrici, che riescono a fondersi bene.
Quel che colpisce subito è la riesumazione di uno strumento bandistico, il souasofono, ormai in desuetudine (sopravvive in alcune bande del Sud Italia), che fa da ingombrante comprimario alla chitarra elettrica e, ovviamente, alla batteria.
Il risultato è un groove un po’ strano ma d’impatto, anche visivo. Ma il succo dei Delgrés è la poetica musicale, carica di pathos e sentimento viscerale, in cui la matrice blues si lega alla melodia franco-caraibica senza involgarirsi.
Decisamente no: lo spirito francese per fortuna sopprime le tentazioni danzerecce e il creolismo scaccia il latin.
E allora godiamoci l’alchimia efficace e bizzarra a cui il cantante chitarrista Pascal Danae, un nero grande e grosso dall’aria ironica e bonaria, il sousofonista Raphael Gouthiere e il batterista Baptiste Brondy riescono a dar vita con le loro combinazioni, semplici ma originali e seducenti, che li hanno resi protagonisti dei festival jazz d’Oltralpe.
Protesta e passione: è il doppio binario su cui si muove Mo Jodi, il loro primo, recentissimo album pubblicato dalla belga Pias.
Respecte Nou apre l’album con un saggio delle peculiarità del trio: un uptempo sostenuto a metà tra il southern e il rock ’n roll, su cui Danae lancia i fendenti della sua Diavoletto Gibson e intona il suo cantato lamentoso un po’ afro che dà una particolare profondità espressiva a un brano altrimenti scanzonato. E il sousafono? Conferisce spessore e un groove pazzesco, senza sporcare il sound, tant’è che è difficile capire se sia merito di monsieur Gouthiere o dello strumento in sé.
Il tempo rallenta decisamente e vira sul tribale in Mo Jodi, in cui la vocalità afro di Danae si innesta bene su un bel jungle rhythm alla Bo Diddley.
The Promise è un brevissimo intermezzo parlato che introduce a Mr President, un altro brano di protesta che, se non fosse per il riff particolarmente duro della chitarra, potrebbe sfociare nel reggae. Politicizzati senza averne l’aria («Non conosco questa merda, sono solo un musicista», ha dichiarato Danae al riguardo) riescono a smuovere le corde dell’indignazione su un ritmo ipnotico, impreziosito da un uso efficace della slide guitar.
Con l’eterea e sognante Vivre Sour La Route si cambia atmosfera: le suggestioni reggae-caraibiche emergono in primo piano in una ballad rilassata in cui i Nostri non disdegnano le suggestioni country.
Sere Mwen Pli Fo è un’altra ballad, ancora più dolce ed intimista in cui l’aspetto blues si dissolve nella struttura pop folk del pezzo.
Con Can’t Let You Go la band torna sulle sue coordinate afro-soutthern interpretate con la consueta efficacia.
Le influenze afro-tribali si fanno più marcate in Ti Manmzel che parte in maniera minimale con un simpatico passaggio in scat vocal e cresce su un riff jungle.
Il groove cresce in Anko, grazie al sousafono che si ritaglia un ruolo da protagonista con poche, efficacissime note.
Ramene Mwen è un’altra incursione afro carica di suggestioni e melodia.
In Chak Jou Bon Die Fe il trio riprende la direzione caraibica con un’altra melodia ariosa e sognante.
La conclusione è affidata alla dolce Pardone Mwen, una ballad malinconica piena di atmosfera.
Certo, è difficile notare (e la stampa specializzata italiana quasi non se n’è accorta) un progetto musicale così laterale in una scena blues che nel 2018 è stata più che affollata dalle vecchie glorie e dai giovani leoni. Ma c’è da dire che i Delgrés spiccano per originalità grazie al loro crossover tra tradizioni musicali ormai considerate di nicchia.
Il loro è un blues radicale, sia perché riprende le radici del genere (roots, appunto), sia perché spinge la poetica della musica black al suo estremo e le ridà la dignità di canto dell’anima di un popolo sradicato e sfruttato.
Un progetto colto e intrigante allo stesso tempo. A questo punto, dire che il trio valga la pena di molti ascolti attenti è proprio il minimo. E non c’è altro da aggiungere.
Da ascoltare (e da vedere):
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