Groundbreaker, un nuovo progetto degli assi dell’hard rock melodico
Steve Overland, storico frontman degli FM, e Robert Sall, il più che talentuoso chitarrista dei W.E.T., assieme in un supergruppo anglo-scandinavo che rinverdisce i fasti dei migliori anni ’80
La napoletana Frontiers non si limita a lanciare nuovi talenti, eternare vecchie glorie o rilanciare band di spessore.
Con creatività tipicamente partenopea la label di Serafino Perugino è anche una catalizzatrice di nuovi progetti e nuove band, create attorno a personalità di primo piano.
Così è per Groundbreaker, un’iniziativa non dissimile dalla recentissima Gioeli-Castronovo. Anche stavolta i musicisti assemblati da Perugino sono di prima grandezza: parliamo di big come Steve Overland, splendida voce dei britannici FM, il talentuoso Robert Sall, chitarrista svedese degli W.E.T. e dei Work Of Art, da cui proviene anche il batterista Herman Furin, e il bassista, anche lui svedese, Nalley Pahlsson, che vanta un’intensa militanza nei Treat e nei Therion.
Il tutto amalgamato da Alessandro Del Vecchio, che ha fatto da produttore e ha realizzato le parti di tastiera.
Con questi presupposti, Groundbreaker, uscito da pochissimo, non poteva non essere un prodotto notevole. Come altre operazioni della Frontiers, anche questo album è un viaggio a ritroso nell’hard melodico anni ’80: suoni patinati e brillanti, songwriting efficacissimo (curato da Sall) riff graffianti e potenti quel che basta e melodie ruffiane, a volte vagamente epiche e a volte dolci ma mai sdolcinate.
L’open track Over My Shoulder è il classico brano manifesto di questa poetica musicale: attacco vanhaleniano (da 1984 in avanti) con chitarrona ed effetti elettronici, refrain arioso alla Survivor, coro ammiccante e canterino e assolo melodico con sparate veloci.
Will It Make You Love Me rilancia alla grande la lezione ottantiana: attacco con un riff funkeggiante che strizza l’occhio ai Kiss di Asylum e refrain un po’ alla Toto. Notevole l’assolo di Sall, che fa il verso a Bruce Kulick e a John Norum.
Eightenn Til I Die è un inno alla giovinezza in chiave aor, un bel pezzo pop placcato con una brillantissima patina rock.
La stessa pop rock è ripetuta nella patinata Only Time Will Tell, che ricorda non poco le colonne sonore dei film alla Karate Kid.
Un’altra strizzatina d’occhio ai Van Halen più poppeggianti nel riff introduttivo (un arpeggio suonato col muting, un dop del grande Eddie) di Tonight, ma poi il resto si sviluppa in direzione dell’aor più canonico (avete presenti i Foreigner?).
Piena di pathos, Standing Up For Your Love si segnala per il suo andamento in crescendo, tra melodie epiche e arrangiamenti notturni e per l’interpretazione a dir poco magistrale di Overland. L’assolo, stavolta, è affidato alle tastiere di Del Vecchio, che lanciano fraseggi ammiccanti alla fusion, come in certe cose dei Toto.
In alto gli accendini, anche se non usa più troppo, per Something Worth Fighting For, la ballad da diciottesimo compleanno con tanto di coro alla Nazareth che in un album ottantiano come Groundbreaker non può proprio mancare.
Riffone tostissimo e andamento epico, spedito e cadenzato al tempo stesso, in The Sound Of A Broken Heart che, dopo un bridge rallentato, esplode nell’assolo veloce ed efficacissimo di Sall.
Il chitarrista spadroneggia alla grande anche nella bostoniana (nel senso dei Boston) The First Time, che parte in maniera soft su un bell’arpeggio, evolve in un riffone secco e potente e culmina in un assolo da manuale, tecnico, veloce e melodico allo stesso tempo.
La veloce The Days Of Our Lives rilancia sulle frequenze ottantiane con un bel refrain arioso e pomposo.
La pop oriented The Way It Goes chiude l’album col suo coretto ruffiano sostenuto dal solito tappeto di synth marcato dalla trama robusta della chitarra.
Giusto a mo’ di appendice, la versione acustica di Something Worth Fighting For, per sole voci e piano più qualche delicata spennellata di synth qui e lì, con un effetto complessivo da gospel.
Ora che altro bel viaggio nella macchina del tempo si è concluso, vale la pena di fare giusto un paio di considerazioni.
La prima riguarda la poca originalità di iniziative come Groundbreaker. In questi casi, la creatività non è necessaria, perché le operazioni nostalgia si basano più sull’interpretazione che sulle idee nuove. L’importante, insomma, è che la macchina del tempo funzioni e sia credibile.
La seconda considerazione è legata alla prima e riguarda il vintage anni ’80, il più difficile da riproporre, proprio perché i suoi cliché sono rigidamente codificati e non si prestano troppo alle innovazioni. Si può storcere il naso quanto si vuole (e i puristi del rock duro lo fanno senz’altro), però non si può non ammettere che per rilanciare un genere, l’aor, che ha avuto padri illustri (i menzionati Toto, Boston e Foreigner) e in cui all’epoca si sono cimentati più o meno tutti, persino i Judas Priest, occorrono tecnica, passione e competenza.
Queste doti i Grondbreaker, costituiti da protagonisti di quella scena, le hanno in maniera somma. Tanto di cappello, allora, alle trovate della Frontiers, perché il rock attuale, spesso in debito d’ossigeno e in crisi di idee, trabocca di cloni, soprattutto tra le nuove leve. Invece, l’idea di assemblare big e vecchie glorie è vincente, anche dal punto di vista filologico.
Un genere musicale è come un mazzo di carte: a furia di usarlo in continuazione si logora. Per rinnovarlo basta rimescolare un po’ e il gioco riprende ad emozionare. Come nel caso dei Groundbreaker, appunto.
Da ascoltare (e da vedere):
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