Dalle colonne sonore all’indie, il nuovo album di John Parish
L’artista britannico lancia il suo Big Dog Dante: undici canzoni cariche di atmosfera e piene di sperimentazioni. Partecipa all’impresa la sodale di sempre Pj Harvey
Elettronica, campionamenti e atmosfere cinematiche, perché gli anni trascorsi a comporre colonne sonore non passano invano.
Ma anche canzoni sentite, intimiste e piene di sentimento e bizzarrie.
Il cantautore e polistrumentista britannico John Parish sforna Big Dog Dante (non lambiccatevi troppo sul titolo: lui stesso ha spiegato che è solo un gioco di parole) per la Thrill Jockey, un album di undici brani composti e incisi nello studio di casa con mezzi a volte di fortuna – ad esempio il cellulare con cui ha catturato la voce di Aldous Harding nel backstage di uno show – con un ricorso massiccio all’effettistica e agli amici che lo accompagnano da anni: il batterista francese Jean-Marc Butty, il chitarrista britannico Jeremy Hogg e due talentuose italiane, la bassista Giorgia Poli e la polistrumentista Marta Collica.
A proposito di esperienze, non sono passati invano neppure gli anni di collaborazioni in cui Parrish si è fatto un nome nella scena indie internazionale e ha assorbito gli influssi più disparati, che ora restituisce all’ascoltatore con un’originale rielaborazione.
Voleva prendersi un pausa dalle colonne sonore, ha spiegato il Nostro, e per questo ha fatto un album. Sarà, ma certi vizi non muoiono, perché la minimale Add To The List apre l’album con atmosfere wendersiane interpretate con un’impostazione alla Lou Reed.
Percussioni elementari e un arpeggio di banjo aprono Sorry For Your Loss, dedicata all’amico Mark Linkous, il leader degli Sparklehorse e uomo chiave della scena indie morto suicida nel 2010. Forse non è un caso che, assieme a Parish lo ricordi con un bel duetto la brava e fascinosa Pj Harvey, prima guest star dell’album.
Suggestiva e ipnotica, The March ruota attorno a una semplice frase della chitarra (sarebbe quasi eccessivo parlare di riff) che crea un controcanto alla voce filtrata dell’autore.
A proposito di colonne sonore: non vi sembra che il breve intermezzo strumentale Let’s Go sia preso di peso da qualche noir-horror degli anni ’80? Forse sì, ma se sommiamo questo brano al successivo Type 1, un lento atmosferico essenzialmente per voce e chitarra che ne è la naturale prosecuzione, la suggestione cresce e ci si ritrova catapultati in una scena del miglior David Lynch.
Nell’atmosferica Rachel, che riesuma contemporaneamente Reed e Bowie, c’è il duetto già menzionato con la Harding.
Molto cinematica, Buffalo rievoca atmosfere desertiche coi suoi pochi versi affogati nell’elettronica e in sonorità rarefatte e roventi.
Ma l’effetto colonna sonora emerge di prepotenza nella ipersuggestiva Kireru, uno strumentale per tastiere, effetti elettronica e chitarra alla Parrish, cioè distorta ed effettata.
Ancora più rarefatto, Le Passé Devant Nous è un altro strumentale in cui l’elettronica noise fa da sfondo alle esili dissonanze del pianoforte.
La stessa soluzione sonora si ritrova nel successivo Carver’s House, che ne è la prosecuzione.
Chiude l’album la quasi beatlesiana The First Star, dedicata al compianto asso del calcio britannico George Best.
C’è chi ha parlato di desert music riguardo Big Dog Dante. Senza per questo voler discutere di etichette e di generi musicali, si può più semplicemente dire che l’ultima fatica di Parish sia il frutto maturo di anni di sperimentazioni in un contesto di confine e non facilmente definibile come l’indie rock.
Se amate le emozioni forti e l’impatto, questo album potrebbe non fare per voi. Se, invece, siete convinti che le emozioni prescindono dai volumi e dall’orecchiabilità, ascoltatelo con attenzione più volte: Big Dog Dante non acchiappa subito. Ma quando lo fa è difficile liberarsene.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale di John Parish
Da ascoltare (e da vedere):
13,593 total views, 2 views today
Comments