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La Venere macabra dei Black Moth

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Torna con Anatomical Venus il quintetto britannico dedito allo stoner più sulfureo. Suoni ancora più heavy grazie alla nuova chitarrista italiana Federica Gialanzè e citazioni dai Black Sabbath d’antan. Ma non mancano le aperture melodiche

Un feticcio raccapricciante in copertina (la testa di una donna utilizzata in un laboratorio di anatomia del XIX secolo), suoni pesanti a cavallo tra il doom e lo stoner, tutt’altro che ingentiliti dalla voce femminile e atmosfere tese e sulfuree, dove i Black Sabbath anni ’70 tendono la mano agli Stooges e ai Queens Of The Stone Age.

I Black Moth

Anatomical Venus, pubblicato nella tarda primavera dalla britannica Candelight è il terzo album dei Black Moth, quintetto inglese che ha la caratteristica più unica che rara di unire una cantante, l’ottima Harriet Bevan, dotata di vocalità tendenzialmente melodica che ricorda PJ Harvey, a suoni oscuri.

Già: potremmo benissimo immaginare la Harvey impegnata in un repertorio metal, ma pensarla nello stoner viene difficile. Soprattutto se questo stoner ha i suoni appesantiti grazie all’altra presenza femminile del quintetto, la chitarrista italiana Federica Gialanzé, che è entrata di recente nella band e ha contribuito ad inspessire il sound con pastose citazioni del Tony Iommi vecchia maniera.

La ricetta musicale vincente di Anatomical Venus è tutto sommato semplice e piuttosto canonica: grande compattezza del wall of sound, in cui nessuno dei cinque, cantante inclusa, primeggia ma contribuisce all’insieme: la chitarra della Gialanzé amalgamata alla perfezione con quella di Jim Swainston e grande tiro della sezione ritmica, costituita dal bassista Dave Vachon e dal batterista Dom McCready, che fornisce una grande dinamicità ai brani, sia a quelli più doom e cadenzati, sia a quelli più movimentati.

La copertina di Anatomical Venus

Rispetto ai precedenti due album (The Killing Jar del 2012 e Condemned to Hope del 2014), la band tenta maggiori aperture melodiche, in direzione di un metal più tradizionale.

Un esempio di questa evoluzione stilistica è offerto da Istra, l’ottima open track, che parte con un riff vagamente lisergico e cresce su una dinamica tipicamente anni ’70. Notevole l’intuizione di impostare il refrain su una linea minimale di basso, che valorizza la melodicità della Bevan, per creare un contrasto col fortissimo del coro.

Decisamente doom’n gloom la seguente Moonbow, un omaggio efficace ai vecchi Sabbath, ribadito anche dalla corsa strumentale delle chitarre, che si scatenano nella parte finale del brano.

La stregonesca Sisters Of The Stone è giocata su un bel riff anni ’70 e su cambi di tempo e stop and go a ripetizione, che sfocia in uno strumentale di chitarre all’unisono dal vago sapore maideniano.

Buried Hoards ha un approccio più moderno, che ricorda un po’ gli Alice In Chains più qualcosa dei Queens Of The Stone Age. Bella la prestazione della cantante, che dà personalità al pezzo senza strafare.

Severed Grace è un pezzone dark sabbathiano al cento per cento: tempi cadenzati, cantato ipnotico e assolo di chitarra su un tempo veloce.

A Lovers Hate è un gioiellino di dinamismo ritmico, un bel esempio di metal vecchia scuola: ritmica tiratissima e duetto di chitarre nella parte solista, più coro in controtempo.

Rockeggiante, piuttosto veloce e piena di aperture melodiche, Screen Queen è un’altra efficace canzone-manifesto della nuova direzione intrapresa dai Black Moth.

Tourmaline è un altro ossequio ai Sabbath. Ma l’interpretazione della Bevan fa di nuovo la differenza ed evita che l’omaggio si riduca a clonazione di cliché sonori.

A Thousand Arrow  è un altro pezzone doom che evolve bene in un crescendo melodico senza prendere corse inutili.

Chiude l’album Pig Man, in cui i nostri mollano un po’ il doom e fanno il verso al crossover dei Rage Against The Machine.

Anatomical Venus è una bella prova musicale per il quintetto inglese, che passa a pieni voti il proprio esame di maturità.

Jim Swainston e Federica Gialanzè in azione sul palco

Consigliato sia agli appassionati del genere, sia agli amanti delle sonorità pesanti o ai semplici rockers che vogliono approcciare lo stile sfuggente e un po’ retrò dello stoner senza farsi intimorire dalle sonorità vintage.

Buon ascolto.

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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