Tornano i Kino e Voltaire diventa prog
Radio Voltaire è il secondo album del supergruppo britannico che raccoglie l’eredità dei Marillion e dei Genesis prima maniera. Suoni moderni per un modo classico di concepire il rock.
Proprio un concept non è, sebbene le sue undici canzoni abbiano un riferimento unico e un po’ bizzarro: Radio Voltaire, pubblicato in primavera dalla Inside Out, racconta di una radio completamente libera e ispirata al grande filosofo e che mette alla berlina politici e governi. Il solito pizzico di retorica rock che non guasta in un contesto progressive.
Questo album, infatti, segna il ritorno dei Kino (da non confondere con l’omonima band sovietica), supergruppo del neoprog britannico e autore di un altro solo album, il bel Picture del 2005.
Tredici anni, va da sé, non passano invano, soprattutto per musicisti di alta caratura come il chitarrista-cantante John Mitchell (che vanta un curriculum sterminato, in cui figurano gli It Bites, Arena e Frost), il bassista Pete Trewavas (Marillion e Transatlantic), il tastierista John Beck (It Bites) e il batterista Craig Blundell (Steven Wilson). E Radio Voltaire, registrato in breve tempo dopo anni in cui il progetto Kino era in frigorifero, risente sia della maggiore esperienza dei musicisti sia, ovviamente, dell’evoluzione del mondo prog, che ormai tende ad accantonare le suggestioni pop (tipiche degli anni ’80) e a virare verso l’hard o addirittura il metal.
Ed ecco che la title track apre l’album con un caleidoscopio di citazioni, in cui Mitchell si diverte a evocare Jon Anderson degli Yes e si produce in una performance chitarristica niente male, che ricorda un po’ lo Steve Hackett più recente. Che la tendenza sia verso l’hard lo dimostra anche l’uso sapiente delle tastiere, assolutamente non invasive e in grado di coesistere con i passaggi più pesanti (ad esempio il riff heavy suonato all’unisono da Mitchell e Trewavas all’inizio della seconda metà del pezzo).
The Dead Club è un altro esempio di questa tendenza verso l’hard: riff duro, eseguito prima dalla tastiera e poi dalla chitarra (che suona curiosamente sporca e nasale), controtempi contrappuntati con efficacia dal basso e, unico cenno prog, un assolo di sintetizzatore alla Ian Hammer, quindi molto chitarristico.
Più morbida e carica di atmosfera Idlewild è un omaggio alla lezione dei Marillion anni ’80, pur con le dovute differenze tra l’approccio vocale di Mitchell e quello di Fish.
La combine dinamica tra pianoforte elettrico e chitarra e i crescendo di I Don’t Know Why sono invece un omaggio ai Genesis dell’era Gabriel.
Interessantissima e complessa I Won’t Break So Easily Any More, che si muove tra le sonorità rarefatte della parte iniziale, evolve in un refrain potente ed epico (anche in questo caso il riferimento ai Genesis non è fuori luogo) e culmina in un bel duello tra chitarra e sintetizzatore.
Temple Tudor è una ballata acustica con qualche riferimento rinascimentale ma prevalente struttura folk.
Struttura complessa e stratificata in Out of Time, in cui gli influssi di Genesis e Marillion calati in un leggero contesto hard sfociano in citazioni jazzistiche, stavolta di Trewavas che si produce in assoli di basso dal vago sapore bop.
Warmth of the Sun è una breve piece minimalista (solo pianoforte e voce) carica di suggestioni e di toni nostalgici.
Grey Shapes on Clouds si snoda tra dinamiche elettroniche e crescendo hard con un impatto dinamico notevole.
Romantica e sognante, Keep The Faith, è la canzone più tastieristica dell’album, caratterizzata dal bel crescendo orchestrale che precede l’assolo di Mitchell. Un altro omaggio ai Marillion.
The Silent Fighter chiude l’album con un’altra notevole prova d’assieme, tra atmosfere minimali e rarefatte, un crescendo potente e spigoloso e un finale orchestrale.
Seguono quattro bonus track, in cui i Kino sfogano quella bizzarria senza la quale il prog non è prog. Ed ecco che la ballad chitarristica Temple Tudor diventa un brano per pianoforte, l’hard di The Dead Club si trasforma in un remix tastieristico e Keep the Faith diventa una piece orchestrale. Chiude questa seconda parte The Kino Funfair, un divertissment orchestrale, per ricordare che non c’è cinema (Kino, appunto) che non abbia titoli di coda.
Radio Voltaire è un efficace esempio di come il progressive rock possa avere ancora un futuro. Cioè una possibilità di sopravvivere con un’anima propria, senza essere fagocitato dal metal o dalla fusion (processi tra l’altro ampiamente in atto da anni).
Il problema è capire se questo orgoglio di bandiera possono permetterselo solo musicisti affermati come Mitchell e soci o sia praticabile anche dalle nuove leve.
Nel dubbio, godiamoci pure Radio Voltaire, con la speranza che non debbano passare altri tredici anni per ascoltare il successore.
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