The Dead Daisies, rock finto rozzo per virtuosi veri
Burn It Down è il quarto album del supegruppo che ha resuscitato lo stile stradaiolo delle band più torride del passato, a partire dagli Aerosmith
Diciamolo subito: quando cinque virtuosi di chiara fama si chiudono in studio di registrazione il risultato può al massimo deludere le aspettative ma mai essere una ciofeca, perché il mestiere o c’è o non c’è. E quando c’è si sente.
Ciò vale soprattutto per The Dead Daisies, il superquintetto australo-americano, nato nel 2012 e arrivato con Burn It Down, pubblicato dalla Spitfire Records a fine primavera, al quarto album in studio. Una carriera mica male e nient’affatto scontata per musicisti gettonati e carichi di impegni come il cantante John Corabi (ex Motley Crue), il chitarrista David Lowy, unico fondatore superstite della formazione più volte rimaneggiata negli anni, il bassista Marco Mendoza, mattatore a quattro corde della scena rock mondiale, il superbatterista Dean Castronovo (già con i Journey e con Steve Vai) e l’asso della chitarra Doug Aldrich.
Oltre che di musicisti di prima grandezza, si tratta di artisti che si sono incrociati più volte (si pensi alla comune militanza di Aldrich e Mendoza negli Whitesnake) e hanno un ottimo affiatamento. Perciò a differenza di altri supergruppi, The Dead Daisies sono davvero una band. E scusate se è poco.
Burn It Down è in linea con le aspettative, stilistiche e qualitative: è un bell’album di sleaze rock, in cui risuona alla grande la lezione degli LA Guns e dei Guns ’n Roses con più di una strizzatina d’occhio ai grandi classici, Ac/Dc, Aerosmith e Led Zeppelin in prima fila, con un sound volutamente sporco e carico di groove.
Resurrected apre l’album con un riff sporco e una ritmica tirata su cui Corabi e Aldrich danno il meglio di sé.
Rise Up è un bel brano 70es oriented, caratterizzato da un riff doom e da una ritmica cadenzata che apre su un coro arioso. I Black Sabbath di Sabotage non avrebbero saputo far meglio.
La title track è una lezione di southern rock, dal refrain rarefatto e dal coro potente, con una bella prestazione di Corabi, la cui voce è ora dura e ora sensuale.
Judgement Day si segnala per l’attacco arpeggiato a mo’ di ballad che evolve in un crescendo tosto e dall’andamento funkeggiante Aerosmith style.
What Goes Around col suo bel riff tondo e panciuto è un bel omaggio ai Led Zeppelin di Physical Graffiti.
A proposito di reminescenze: con la dura Bitch i Nostri cambiano decennio di riferimento e citano sfacciatamente i Motley Crue e gli LA Guns.
Set Me Free è una bella ballad sognante dai tocchi zeppeliniani, segno che anche gli sleazers hanno un cuore.
In Dead and Gone gli Zeppelin stringono la mano agli Aerosmith con grande efficacia.
Can’t Take it With You mescola un riff doom su un andamento un po’ stoner.
Ritmata con qualche sincope gradevole e vari stop and go, Leave Me Alone richiama gli Ac/Dc più dinamici più qualcosa dei Guns ’n Roses
Dopo tante citazioni non poteva proprio mancare la cover. Ed ecco che una versione sferragliante e sporchissima della beatlesiana Revolution chiude l’album con una grinta sconosciuta ai tanti emuli dei Fab Four.
Undici canzoni tiratissime, da ascoltare tutte d’un fiato. Ritmiche dinamiche e assoli sporchissimi a gogo: Burn it Down è un viaggio nella storia del rock più torrido affrontato da The Dead Daisies con la passione dei cultori e la pignoleria degli enciclopedisti. Non sarà il massimo dell’originalità, ma è un album vero. Il che, in anni di rock artificiale, non è davvero poco.
Da ascoltare (e da vedere):
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