Gravity, gli artigli della Mantide colpiscono ancora
I Praying Mantis tornano con un album potente e melodico, che ringiovanisce la lezione del metal britannico
Indomiti e inossidabili. Fanno molta simpatia, i Praying Mantis, la band inglese a conduzione familiare, fondata 44 anni fa dai fratelli Troy (il chitarrista-cantante Tino e il bassista-cantante Chris).
Il quintetto britannico continua a macinare dischi e concerti, imperterrito e indifferente alle mode che cambiano e agli alti e bassi.
Una carriera mediana, la loro, a cui è mancato quel pizzico di fortuna che avrebbe potuto farne delle star. Ma lo status di cult band non è poi quel gran male, per un gruppo che si è sempre ispirato a modelli d’oltreoceano e ha mirato al mondo radiofonico sin da subito. Peccato solo che siano esplosi durante la Nwobhm e quindi sono stati costretti a misurarsi con gli alfieri del metal duro e puro (Iron Maiden e Saxon in prima fila).
Peccato solo che, finito il british metal, la loro formula americana non abbia pagato più di tanto, perché nel frattempo il gusto collettivo si era orientato verso le sonorità ruvide e sgraziate del grunge.
La Nwobhm come vizio d’origine, ma anche come destino, visto che tra gli artigli della Mantide Religiosa sono finiti anche due ex Maiden; il chitarrista Denis Stratton, che vi ha militato stabilmente per tutti gli anni ’90 e il cantante Paul Di’Anno, gradito ospite in alcune fasi dello stesso decennio.
E ora? La coerenza paga, evidentemente: i Nostri sono tornati alla carica col loro recentissimo Gravity, pubblicato a maggio dalla Frontiers.
Gravity, diciamolo subito, è un bell’album, concepito bene e suonato meglio, con quella maestria che deriva solo da una grande esperienza e che forse soffre solo un po’ il paragone con il predecessore Legacy (2015).
Keep it Alive, tra l’altro singolo apripista con tanto di video simpaticissimo, inizia Gravity con un saggio del Mantis style: chitarre (quella di Troy e di Andy Burgess) toste ma non troppo, come vuole l’inclinazione melodica della band, e suonate all’unisono, secondo i dettami della Nwobhm. Refrain arioso e un po’ epico, interpretato alla grande da John Cuijpers, dotato di una voce potente, pulita e ben gestita sui registri alti, per capirci sul modello di Joseph Williams dei Toto, uno che ha fatto scuola nell’aor.
La successiva Mantis Anthem, è l’esempio di comune un brano in sé banale possa diventare qualcosa di speciale nelle mani giuste: ed ecco che una canzone da stadio sul modello dei Survivor diventa un inno trascinante.
Time can Heal è una riuscita operazione nostalgia rivolta agli anni ’80, grazie a una linea melodica ruffiana alla Bon Jovi vecchia maniera. Una colonna sonora retrospettiva dell’adolescenza perduta di molti over 40 di oggi.
Bella la prestazione di Cuijpers nella drammatica 39 Years, altro riuscito refrain ottantiano.
La title track si segnala per la ritmica ultracadenzata, ben gestita dalle bacchette di Hans in’t Zand e marcata dalla linea ipnotica del basso di Troy che accompagna una melodia sognante.
Ancora nostalgia in Ghosts of the Past, che si snoda attorno a un arpeggio, eseguito in sequenza dal pianoforte e dalla chitarra, su cui si innesta una bella performance vocale.
Destiny in Motion, che parte lenta ed evolve in un bel crescendo dinamico, ricorda i Queen più americaneggianti.
Il rock melodico non è tale se non c’è almeno una ballad. Nel caso di Gravity, questo ruolo delicato è assolto da The Last Summer, in cui la nostalgia torna a far capolino, più adolescenziale e canaglia che mai.
Ancora una strizzatina d’occhio ai Queen nella delicata e romantica Foreign Affair.
Shadow of Love, melodica e grintosa, potrebbe essere la sigla di qualche vecchio film americano di fine millennio.
Chiude l’album la sofisticata Final Destination, che si segnala per i suoni più heavy e l’arrangiamento orchestrale.
A mo’ di appendice la versione unplugged di The Last Summer, a nostro giudizio più bella ed evocativa dell’originale.
Su Gravity, i giudizi si sono sprecati: vanno dal paragone già accennato con l’album precedente a considerazioni sulla poca originalità a nostro giudizio del tutto gratuite.
Un album come Gravity potrebbe risultare poco originale e poco ispirato se fosse stato prodotto da una band di ventenni. Nel caso dei Mantis, che viaggiano verso i 60 anni d’età o (come i fratelli Troy) li hanno superati, è una dimostrazione di coerenza stilistica e di grandi capacità musicali, acuite da un’esperienza non sempre facile.
I Praying Mantis sono tornati e sono quelli di sempre. E per apprezzarli come si deve non occorre essere a forza dei fan, ma basta un po’ di buon gusto.
Da ascoltare (e da vedere):
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