Reimagining The Court Of The Crimson King: superbig a confronto coi papà del progressive
Un cast all star ringiovanisce con una sequenza di cover mozzafiato il classico col quale i King Crimson inaugurarono cinquantacinque anni fa il filone del rock più colto e sperimentale
Prima di raccontare un’operazione artistica (ancorché discografica) come Reimagining The Court Of The Crimson King (Cleopatra 2024) occorre mettere da parte scetticismo retorica.
In teoria, non ci sarebbe motivo di mettere assieme un cast all stars e fargli reinterpretare In The Court Of The Crimson King (Island 1969), il mitico album d’esordio dei King Crimson e, per i più, big bang del progressive rock.
Infatti, non c’è un anniversario tondo (tale non è il cinquantacinquesimo compleanno del disco, buono solo a ricordare ai fan di vecchia data il tempo che passa) né un’occasione particolare da celebrare. Solo la voglia di far cassetta con classe, riproponendo al pubblico un classico rimesso a nuovo quel che basta. Ma neanche troppo, perché un capolavoro non si può reinterpretare: basta qualcosina fuori posto e lo si snatura. Più o meno come fare i classici baffi alla Gioconda…
Reimagining The Court: una collezione di big per i King Crimson
L’impossibilità di reinterpretare (almeno non più di tanto) il capolavoro dei papà del prog emerge sin dalla nuova open track: la mitica 21st Century Schizoid Man, eseguita alla grandissima da un supergruppo composto da Todd Rundgren e Arthur Brown che si alternano al microfono, il polistrumentista crucco ed esponente di punta dell’ultima generazione del Krautrock Jürgen Engler, al basso, alla seconda chitarra e alle tastiere, il mitico cofondatore dei Megadeth Chris Poland alla chitarra. l’ex King Crimson Mel Collins al sax e il mitico Ian Paice dei Deep Purple alla batteria.
Tutto questo popò di artisti solo per rendere una versione modernizzata dell’epico evergreen. Ma mettiamoci nei panni degli interpreti: il riff portante non può che suonare rozzo e nasale e la voce non può che essere filtrata e distorta, appartenesse pure a un redivivo Greg Lake e la sarabanda strumentale di metà brano non può non avere le stesse velocissime dissonanze. Altrimenti che 21st Century Schizoid Man sarebbe?
Stesso discorso per l’elegiaca I Talk To The Wind, riproposta dal crimsoniano Jakko M. Jakszyk, che canta e suona chitarre e tastiere, da suo figlio Django Jakszyk al basso e dall’altro crimsoniano Mel Collins. In questo caso, le differenze consistono in qualche leggera sfumatura più pop. Ma è solo questione di attimi.
Cast storico anche per la commovente Epitaph, cantata dall’ex leader degli Hoodoo Gurus Dave Faulkner e interpretata da due ex Hawkwind – il compianto Nik Turner al flauto e Alan Davey alla chitarra – più il super session man Adam Hamilton alla batteria (noto anche come ex bassista degli LA Guns). Ma, al solito, il risultato è di grande fedeltà all’originale.
Inutile cercare percorsi sonori alternativi per Moonchild, cantata dal dio minore del metal Joe Lynn Turner e suonata dal guitar hero Marty Friedman, dall’ex Pil Jah Wobble al basso, dal super batterista Chester Thompson (già alla corte di Frank Zappa ed ex Genesis) e da Engler alle tastiere. Improvvisare, anche in Moonchild è vietatissimo, sebbene la band appena descritta potrebbe farlo alla grande. Ma gli ascoltatori devono accontentarsi di un cantato un po’ più grintoso e suoni più smaglianti dell’originale, per il resto resa con la consueta fedeltà, anche nella lunga digressione strumentale atonale.
Discorso simile per In The Court Of The Crimson King. Anche in questo caso, la superband (composta da James LaBrie dei Dream Theater alla voce, da Engler che si occupa di basso e tastiere, dal decano della scena di Canterbury Steve Hillage alla chitarra e dal mitico Carmine Appice alla batteria) esegue il compito alla perfezione, con qualche variazione sonora interessante.
Ad esempio, la chitarra è in primo piano anche nel riff (affidato quasi esclusivamente al mellotron nella versione originale), l’arpeggio su cui poggia il refrain è secco (cioè senza gli armonici che abbondavano nell’interpretazione di Robert Fripp) e, nella parte finale, emergono dei fraseggi di chitarra qui e lì.
L’unica vera improvvisazione (quanno cce vo’ cce vo’) è contenuta nella prima bonus track: un’altra versione di 21st Century Schizoid Man eseguita quasi dalla stessa band che ha suonato la versione di apertura tranne che per due elementi. Cioè mancano Collins e Rundgren, sostituiti da un’altra leggenda vivente: il mago delle tastiere Brian Auger.
Auger marca il suo territorio con una chicca: la citazione di America dei Nice al posto della parte strumentale canonica: che sia un omaggio all’amico-rivale Keith Emerson?
Chiude un’altra versione, stavolta solo strumentale di 21st Century Schizoid Man. Ma sarebbe più corretto, al riguardo, parlare di versione senza linea vocale, quasi come fosse la base per un karaoke prog…
In The Court Of Crimson King: un classico inalterabile
Vietato improvvisare o quasi. Ciò vale sia per le rigorosissime geometrie sonore dei King Crimson, sia per gli altri grandi del prog che improvvisavano poco (meno dei coevi big dell’hard rock), anche quando sembravano farlo a tutto spiano.
Infatti, nel loro caso non abbiamo a che fare con standard, ovvero brani ridotti a strutture sonore su cui far galoppare estro e fantasie creative non appena finiti temi e riff.
Abbiamo, invece, a che fare con classici, in almeno due significati del termine: da un lato per l’abbondanza di citazioni di musica colta (che nel caso dei raffinatissimi Crimson è soprattutto contemporanea), dall’altro per l’aderenza alla forma canzone (che nella band londinese c’era eccome), che impediva da sola eccessive escursioni.
Vietato improvvisare o quasi, per In The Court Of The Crimson King, che merita il rispetto dovuto a tutte le pietre miliari.
L’operazione del management di Cleopatra è riuscita a ringiovanire un album che, sebbene si avvicini ai sessant’anni di storia, aveva comunque pochissime rughe.
Reimagining The Court Of The Crimson King si rivolge ai più giovani, che possono avvicinarsi a una delle bibbie del rock colto senza temere la polvere degli anni, sia agli appassionati, che possono paragonare le cover fatte da super big all’originale. In ogni caso, vale l’ascolto. E l’applauso.
Da ascoltare:
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