Summit, la nuova scorribanda prog dei Seven Impale
Il sestetto norvegese torna sulle scene con quattro suite complesse e distopiche, tra avant gard e suggestioni zappiane e jazz rock
Dalla Scandinavia con furore? Se si pensa ai Seven Impale, fautori di un prog elitario e sperimentale, si sarebbe tentati di dire di no.
Invece, dall’ascolto di Summit (Karisma Records 2023), l’ultima fatica del sestetto norvegese, emergono una ruvidità e una violenza sonora a tratti insostenibili.
La line up della band, in cui convivono strumenti elettrici e fiati, è tradizionalmente progressive.
Ne fanno parte il cantante-chitarrista Stian Okland (tra l’altro protagonista di una carriera parallela come cantante d’opera), il chitarrista Erlend Vottvik Olsen, il tastierista Hakon Vinje (che milita anche negli Enslaved dal 2017), il sassofonista Benjamin Mekki Videroe, il bassista Tormod Fosso e il batterista Fredrik Mekki Wideroe.
I Seven Impale non sono esattamente prolifici: formatisi nel 2010, hanno prodotto tre album in tutto. E si pensi che Summit è uscito sette anni dopo il predecessore Contrapasso (Karisma Records 2016). Ma l’attesa è valsa la pena.
Seven Impale: quattro suite tra Canterbury e il metal
Le dissonanze del pianoforte, prima rarefatte e poi in martellante crescendo, aprono Hunter, la prima delle quattro suite (dire brani è riduttivo) che compongono Summit.
È l’inizio di un vortice sonoro di grande imprevedibilità.
I cluster del piano sfociano in un riff fortissimo, su cui Okland esibisce un cantato particolare, che ricorda non poco Peter Hammil, dei mitici Van Der Graf Generator.
Ma in questo caso i suoni sono decisamente più heavy e la struttura armonica, carica di dissonanze, quasi zappiana.
Infatti, il brano diventa un andirivieni di cambi di tempo, galoppate veloci e passaggi eterei. Il tutto termina con un coro tra l’epico e il gotico.
Più lineare la seguente Hydra. La suite apre con un arpeggio di piano elettrico su cui si entrano le chitarre e la sezione ritmica con un gioco di controtempi che evoca i nostri Goblin.
In gran spolvero il sax tenore, che contrappunta l’interpretazione drammatica del frontman. Inutile dire che i continui cambi di tempo e di atmosfera marcano anche questo brano.
Con i suoi nove minuti e rotti, Ikaros è il pezzo più breve dell’album. Forse per questo è diventato il singolo apripista. Tuttavia, questa scelta è a dir poco provocatoria: la sequenza impressionante di dissonanze, poliritmi, escursioni nel rumorismo puro colloca il brano nell’avanguardia più spinta.
Chiude l’album Sisyphus, tredici minuti di incursioni nel jazz rock e nell’avanguardia. Definire prog questo brano vertiginoso è davvero poco. Notevoli le evoluzioni del sax sui riff heavy in controtempo dispari suonati all’unisono dalle chitarre e dalla sezione ritmica.
Ma la sfuriata si placa in un rarefattissimo arpeggio di chitarra acustica su cui il sax inserisce melodie e qualche dissonanza.
Per palati fini
Cerebrale, potente ma a tratti algido, Summit è il classico album per intenditori e addetti ai lavori.
I Seven Impale si divertono a provocare l’ascoltatore e lo costringono a riflettere in tutti i modi. Caustici e disturbanti i sei norvegesi sembrano aver abolito l’aggettivo “semplice” dal proprio vocabolario.
Quest’attitudine li rende la punta di diamante del prog più estremo e di confine, in cui più si è complicati più si è bravi.
Già: certo prog è un duro lavoro che qualcuno deve pur fare. E ai Seven Impale auguriamo di farlo più spesso.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale della band
Da ascoltare:
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