Gigaton, il ritorno postmoderno dei Pearl Jam
L’ultimo album del quintetto di Seattle ha fatto un po’ discutere il pubblico e la fanbase. Ma il disco resta un ottimo esempio di rock classico concepito con gran equilibrio tra tradizione e innovazione. E il grunge? Roba passata. Per fortuna…
Gigaton, l’ultimo album in studio dei mitici Pearl Jam, non ha fatto in tempo a uscire che subito è stato accompagnato dalle polemiche.
Troppo classico (e quindi sintomo di sclerosi artistica per alcuni), troppo eterodosso (e comunque non abbastanza Pearl Jam) per altri.
Considerato tosto da una parte della fanbase e non convincente da un’altra fetta di pubblico, in realtà l’undicesimo disco in studio della band di Seattle è un buon prodotto di rock che si può considerare classico, almeno sulla base di due considerazioni.
La prima: il grunge, come filone musicale e sottocultura rock, non esiste più. È senz’altro morto assieme a Kurt Cobain ma, a dirla tutta, non sarebbe sopravvissuto comunque: troppo legato alla contingenza degli anni ’90, questo genere finì per diventare il rifugio dei metallari in disarmo (si pensi al controverso tentativo dei Queensryche di Hear In The Now Frontier) o la comfort zone di artisti modesti, tranne, va da sé, i padri fondatori.
Seconda considerazione: la polverizzazione del mercato discografico è il primo antidoto ai tentativi rivoluzionari a ogni costo, perché la differenza tra le produzioni delle major e quelle indipendenti si è piuttosto assottigliata e la qualità e l’innovazione, ma anche il successo di mercato, sono davvero alla portata di chiunque abbia capacità, idee e talento.
Detto questo, i Pearl Jam, assieme agli Alice In Chains, dimostrano – anzi ribadiscono – di essere riusciti egregiamente a sopravvivere al riflusso del grunge ricollocandosi nel filone musicale più affine alla propria sensibilità, che per Eddie Vedder e soci è il rock anni ’70 laddove per gli Alice In Chains è il metal.
Gigaton, uscito nel pieno del lockdown per Republic Records, è un’ottima conferma dello stato di salute del quintetto di Seattle, che – grazie anche all’apporto del nuovo produttore Josh Evans – riesce a bilanciare la propria anima rock con le influenze country e a tentare qualche esperimento più trasgressivo, come il controverso (ma a nostro parere simpaticissimo) singolo apripista Dance Of The Clairvoyants, che ha letteralmente spiazzato il pubblico della band e gli addetti ai lavori.
Ma queste baruffe sono solo dettagli rispetto alle vere armi vincenti della band: la continuità e la compattezza, che assieme hanno creato una tradizione musicale vera e propria.
Già, tolto il batterista Matt Cameron, entrato in formazione nell’ormai lontano ’98, gli altri membri del quintetto sono assieme dal 1990. Trent’anni di musica vissuti con forte intensità, più in tour che in studio, sono quanto basta per poter dire che l’amalgama musicale del frontman Eddie Vedder, dei due chitarristi Steve Gossard e Mike McCready e del bassista Jeff Ament ha del miracoloso e si fa notare anche a livello compositivo.
Ma procediamo con ordine.
L’open track Who Ever Said dovrebbe smentire tutte le accuse di snaturamento rivolte ai Pearl Jam: il riff secco e il refrain diretto rientrano alla perfezione nei canoni della band. Notevole anche la seconda parte del brano, subito dopo l’assolo di chitarra, costituita da continui stop and go strutturati in crescendo.
La seguente Superblood Wolfmoon, che tra l’altro è il secondo singolo tratto da Gigaton, si richiama maggiormente alle radici musicali della band: il cantato e il riffing evocano gli influssi hardcore sul grunge delle origini, ma l’approccio è decisamente più moderno. Notevolissimo l’assolo di McCready che si diverte a citare Eddie Van Halen e lancia il crescendo della parte finale del brano.
E veniamo al punto dolente sollevato da certa critica: il singolo apripista Dance Of The Clairvoyants, un funky rock molto anni ’80 e pieno di synth che ricorda non poco i Talking Heads. Ma quando si ha la compattezza dei Pearl Jam ci si può sbizzarrire come più si desidera. E quindi non deve meravigliare che in Dance… Gossard faccia la parte del leone e si sbizzarrisca col basso, suonato in maniera ottantiana, e coi riff danzerecci della chitarra.
Con Quick Escape, terzo singolo dell’album, si ritorna su sonorità decisamente più toste. Il brano è un mid tempo massiccio che cita, nel riff e nell’andamento maestoso, Kashmir dei Led Zeppelin e omaggia Freddie Mercury. Notevole anche l’assolo in slide.
Jeff Arment è invece il protagonista di Alright, una ballad minimale che si regge su una trama eterea di suoni acustici ed elettronica, uscita di getto dalla penna del bassista. Efficace e delicata l’interpretazione di Vedder, che si rivela a suo agio anche nelle atmosfere più intimiste.
Con Seven O’Clock la band vira su sonorità eastcoastiane: il refrain ricorda non poco lo Springsteen più acustico mentre gli arrangiamenti grondano di psichedelia e citano i Pink Floyd di Confortably Numb (che non a caso i Pearl Jam eseguono spesso dal vivo).
Never Destination è un altro rock tosto e spedito che rientra nei canoni della band. Notevole l’assolo di chitarra, breve e veloce, che lancia la parte finale del brano.
Take The Long Way, ancora più veloce e dura, vira con decisione verso il punk e cita i Soundgarden di Superunknown. A mo’ di chicca, va citata la partecipazione di Megan Grandall ai cori: unico esempio di una voce femminile nella produzione dei Pearl Jam.
Bucke Up è una ballad particolarissima, che si regge su un arpeggio di chitarra in controtempo e sul refrain in crescendo, il tutto impreziosito dai campionamenti di fiati, altra unicità nel repertorio della band.
Comes Then Goes è una ballad acustica per chitarra e voce, in bilico tra folk e country in perfetto stile springsteeniano. Una gemma di ariosa delicatezza, dedicata allo scomparso Chris Cornell.
Retrograde, finora l’ultimo singolo tratto da Gigaton, è una ballad dalle sonorità raffinate che cita i Rem in cui spicca l’interpretazione intensa del frontman.
Chiude l’album River Cross, un’altra ballad intimista, che si segnala per la profondità dei suoni, grazie all’organo suonato per l’occasione da Vedder.
Gigaton è un’ottima prova della maturità sonora di una band capace di reinventarsi e di superare le mode musicali.
Il sound dei Pearl Jam è diventato un marchio di grande riconoscibilità e, soprattutto, è il segno di una personalità forte che prescinde dai singoli generi musicali.
Non sarebbe davvero il caso, a questo punto, di smettere di parlare di grunge, visto che il quintetto di Seattle sembra essersi lasciata brillantemente alle spalle quest’appartenenza che oggi sembra quasi soffocante?
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale dei Pearl Jam
La webzine italiana dedicata ai Pearl Jam
Da ascoltare (e da vedere):
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