Un saluto umile al grande Morricone
Il compositore romano si è spento a novantun’anni dopo aver marchiato a fuoco l’immaginario di più generazioni. Cosa resterà ora della grande tradizione italiana?
Lo sappiamo, L’IndYgesto arriva tardi rispetto ai coccodrilli sparati a tutta velocità nella rete e confezionati in maniera più o meno frettolosa grazie a qualche spulciatina su Wikipedia.
Tuttavia, un giornale come il nostro, che dedica molto spazio alla musica, non può proprio fare a meno di porgere un saluto sentito – e sì, un po’ commosso – a un gigantissimo come Ennio Morricone.
Ovviamente è persino superfluo elencare i meriti di questo grande artista, che ha lasciato tracce profonde, a volte carsiche altre volte esplosive come un vulcano o un fiume in piena, nell’immaginario sonoro del secolo scorso, a cui il Nostro è sopravvissuto di un ventennio.
E risulta banale anche fare la conta dei riconoscimenti, uno più meritato dell’altro, ricevuti dal Maestro in sessant’anni e rotti di carriera.
Stavolta basta prendere per oro colato l’istinto del pubblico che canticchiava le melodie di Edoardo Vianello e di Gino Paoli, spesso senza sapere che dietro tanta semplicità piaciona c’era lo zampino del grande compositore romano.
Ma il miracolo vero fu un altro: cioè che quello stesso pubblico canticchiasse pezzi interi delle sue colonne sonore. Alzi la mano chi non ha fischiettato il tema di “Per un pugno di dollari” o la dissonanza infernale de “Il buono, il brutto e il cattivo”.
Con la scomparsa di Morricone finisce una terna di grandissimi compositori italiani, che hanno portato sul proscenio la musica da film e l’hanno elevata da sottofondo e commento a protagonista di primo piano.
Gli altri due compositori sono stati il mitico Luis Bacalov e l’immenso Riz Ortolani.
Meno sensibile a livello melodico e meno fine negli arrangiamenti rispetto a Ortolani (che tradusse con originale disinvoltura tutti i linguaggi più moderni, dalle orchestrazioni hollywoodiane al minimalismo, anche elettronico) e meno ferocemente sperimentale rispetto a Bacalov (che contaminò per primo in Italia il rock dei New Trolls e degli Osanna con le orchestre d’archi e scrisse i codici artistici del progressive), Morricone aveva tuttavia la classica marcia in più. Aveva quel qualcosa di impalpabile, che però i musicisti veri conoscono bene: il tocco.
Era un compositore dotato non solo di cultura, personalità e sensibilità, ma aveva quel nonsoché che sublima la bravura e la rende riconoscibile anche ai non esperti: è una virtù di solito tipica degli strumentisti più virtuosi che con Morricone entrò di peso anche nel processo compositivo.
Una virtù riconoscibile soprattutto nei dettagli: la chitarra rozzamente amplificata che racconta le cavalcate degli antieroi di Sergio Leone, lo scacciapensieri che marca le scene di suspense con toni beffardi; i cori femminili che prendono il posto degli archi; il carillon che detta il tema all’orchestra per commentare il fantastico duello tra Lee Van Cleef e Gian Maria Volonté.
La cifra di questo tocco sta in un aggettivo: morriconiano, che non si limita alla musica ma copre un immaginario che sfonda i confini tra celluloide e pentagramma.
Già: se diciamo felliniano pensiamo “solo” a un grande cinema, se diciamo beatlesiano pensiamo alla musica dei fab four (e, certo, anche alla mitologia di massa collegata al quartetto di Liverpool). Ma se diciamo morriconiano pensiamo ad altro: a una musica capace di fondersi con le immagini fino a trasfigurarle nelle note.
Il morriconismo è la capacità, davvero unica, di tradurre le immagini fisiche in canzoni.
Ora prepariamoci pure al diluvio di amarcord mediatici che tutti faranno a gara a dedicare al Maestro pescando da questo o quell’archivio.
Noi preferiamo salutarlo con un dubbio: cosa resterà dell’arte italiana dopo che anche lui se n’è andato? Chi riuscirà a tradurre in musica alta quelle arie semplici e sognanti che hanno riempito l’immaginario di intere generazioni?
Morricone è stato la smentita vivente a Proust, che esortava a non disprezzare la “cattiva musica” perché essa si era riempita dei sogni e dei sentimenti di tanti. Il maestro romano ha fatto davvero di più: ha insegnato ad amare la “cattiva musica” basata spesso su nenie semplici e strumenti poveri, perché nelle sue mani diventava qualcosa di grande.
Ciao, Maestro.
Saverio Paletta
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