La casa di carta: la rapina come rivoluzione
La serie di Netflix si prepara alla sua terza stagione, dopo aver sbancato in tutto il mondo. Il mito del bandito sociale rivive in un contesto postmoderno con un pizzico di follia tutta spagnola
Netflix, il colosso americano dello streaming televisivo, ha ipnotizzato il pubblico e contende il primato degli ascolti ad Amazon Prime.
Lo prova il dibattito, esploso dentro e fuori la rete, su La casa de papel (La casa di carta), la serie spagnola ideata da Álex Pina e trasmessa originariamente da Antena 3, l’equivalente iberico di Italia 1.
La serie, diventata un vero e proprio tormentone, racconta in due stagioni (ma Netflix ha recentemente confermato la terza) quella che viene considerata la più grande rapina della storia, commessa all’interno della Zecca nazionale spagnola da otto malviventi.
Una ingegnosa, diabolica e folle rapina rivoluzionaria, ben gestita e curata in ogni fase, che ha suscitato un interesse morboso nel pubblico amante di serie tv.
La casa di carta descrive il colpo della vita di un gruppo di rapinatori, che rievoca (e aggiorna) il mito del bandito sociale alla Robin Hood.
La banda assalta la sede madrilena della Zecca per stampare oltre due miliardi di euro in biglietti da cinquanta. Il suo è solo un colpo, tra l’altro assai particolare: è, come scrive Le Monde «un’allegoria della ribellione», perché la banda tecnicamente non ruba, ma si appropria dei mezzi di produzione del capitalismo finanziario e sputa in faccia ai padroni dell’alta finanza, ai capitani d’industria e ai big dell’economia che prendono per il naso il ceto medio sempre più impoverito e condannato all’anomia. Non siamo nella Londra anni settanta, raccontata da Ken Follett nel suo Alta finanza ma in una Spagna violenta, sovversiva e anticonformista.
Non a caso, si cita la rivolta popolare di La Puerta del Sol a Madrid, nel 2011, quando nacque il movimento degli Indignados che contestava l’austerità economica seguita alla crisi scatenata dalla caduta di Lehman Brothers.
La banda è guidata dall’esterno dal Professore, un personaggio enigmatico, in cui si mescolano saggezza e follia, che ha scelto come inno Bella ciao per ribadire la natura rivoluzionaria della sua banda.
Un inno alla libertà e alla ribellione, un’apologia del marxismo 2,0, in una società alienata dal potere dei forti e dall’economia di un mercato che di libero non ha neppure la denominazione (qui l’economista Adam Smith si farebbe una bella risata).
La trama è puntellata da colpi di scena paradossali e poco credibili, ma gli spettatori coinvolti nella dinamica della storia quasi non se ne accorgono.
Non si può proprio passare sotto silenzio un dettaglio estetico che rivela un ulteriore paradosso, tipicamente spagnolo: i rapinatori indossano le maschere di Salvador Dalì.
Ma perché questo richiamo estetico al vate del surrealismo?
C’è chi sostiene che la ragione di questa scelta non sia da ricercare nell’identità dell’artista, ma nella sua posizione politica: Dalì infatti, fu un sostenitore del franchismo (che ovviamente si opponeva alla rivoluzione, rappresentata dall’impresa della Banda): mascherarsi con la sua faccia, sarebbe una beffa, un modo per prendersi gioco delle scelte ideologiche che hanno condizionato la Spagna per più di 30 anni.
Secondo un’altra interpretazione questa scelta sarebbe un modo di identificare lo spirito della serie della pazzia di Dalì. Lo farebbe capire bene Alvaro Morte, coè il Professore quando dice che“Ciò che questa maschera rappresenta è lo spirito di resistenza che dovremmo avere tutti di fronte a ogni ingiustizia”.
Ad ogni buon conto, La casa de papel ha vinto la sua sfida e ha allietato i giorni del lockdown, divenendo un fenomeno mondiale.
Non resta che attendere la quinta serie, con cui si aprirà l’annunciata terza stagione.
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