La polizia chiede aiuto, ovvero: le baby squillo della provincia italiana
L’omicidio di una ragazzina scatena una vicenda torbida nella Brescia degli anni ’70. Una storia a metà tra Argento e il poliziesco
L’assassino è spietato, veste in pelle nera e usa una mannaia. E, come nei gialli all’italiana dell’epoca, uccide in maniera a dir poco efferata. Ad esempio, tra le vittime c’è un ispettore privato letteralmente fatto a pezzi (e ricomposto poi in obitorio con dovizia di dettagli macabri, sempre secondo i cliché del genere).
Tuttavia, La polizia chiede aiuto (1974) del bravo Massimo Dallamano non è un giallo all’Italiana.
Cambiamo sequenza: il film inizia con un’inquadratura agghiacciante: dei poliziotti, guidati dal commissario Valentini (un Mario Adorf bravo come sempre, ma in tono minore) fanno irruzione in una soffitta e vi trovano il cadavere, nudo, di un’adolescente che penzola da una trave. Suicidio? No, omicidio, come appurerà ad indagini appena iniziate la sostituta procuratrice Vittoria Stori (la bella e brava Giovanna Ralli, approdata al cinema di genere dopo una lunga gavetta con big del calibro di Rossellini e De Sica).
La quindicenne è Silvia Polvesi (l’americana Sherry Buchanan, più che maggiorenne all’epoca del film ma in grado di calarsi nel ruolo della lolitina grazie all’aspetto adolescenziale e alla facilità nello spogliarsi), figlia di due industriali ricchi e distratti (interpretati dall’hitchcockiano Farley Granger e la bella Marina Berti, anche lei passata dal cinema d’autore a quello di genere).
Silvia, ingenua e disinibita, viene irretita in un giro di squillo giovanissime nella città di provincia dove abita. Ma non si limita a prostituirsi: ha anche una vita sentimentale intensa e sregolata: non a caso, le immagini dei suoi incontri intimi sono riprese da Bruno Paglia (il felliniano Franco Fabrizi), che in apparenza sembra un guardone ma in realtà è più implicato di quanto non sembri nella vicenda.
Trattandosi di un omicidio e non di un suicidio, le indagini passano di mano e verranno gestite dal commissario Silvestri (il bravo e aitante Claudio Cassinelli, anche lui partito dal cinema d’autore e approdato a quello di genere, di cui negli anni ’70 sarebbe diventato un volto noto, prima di scomparire in maniera tragica e prematura).
Con Silvestri, rude e lucido, la musica cambia e le indagini prendono un’altra piega, fino a dipanare la matassa torbida della vicenda, in cui è implicato anche uno psichiatra, il professor Beltrame, perverso e impotente, che gestisce il giro delle baby squillo.
Serve altro? Forse sì, ma trattandosi di un giallo, anche avvincente, non è il caso di proseguire.
Semmai è da notare come Dallamano non fosse nuovo al filone delle lolite, visto che La polizia… riprende il tema della sessualità adolescenziale già affrontato con garbo e maestria in Cosa avete fatto a Solange? (1972). Non a caso il titolo inglese è What have they done to your daughters? (Cosa hanno fatto alle vostre piccole?). Lo riprende e lo attualizza, visto che, anche negli anni ’70, il tempo non passava invano.
In La polizia, ad esempio, il linguaggio e le situazioni sono decisamente più esplicite che nel suo predecessore, che non era leggerissimo (si pensi alla scena dell’aborto e al modus operandi dell’assassino, che uccideva le ragazzine con pugnalate nella zona intima). Ora si parla di rapporti anali e stupri con una bottiglia, il sangue, come s’è già detto, scorre a profusione e i riferimenti sessuali sono più espliciti (si pensi alla dovizia di riviste porno sparse in uno dei luoghi del delitto, su cui indugia la telecamera).
Inoltre, in questo film il regista milanese abbandona l’eleganza formale di Cosa avete fatto a Solange? e ibrida la tematica giallistica con alcuni elementi cardine del poliziesco all’italiana, grazie anche all’influsso del produttore Roberto Infascelli, che tre anni prima aveva lanciato La polizia ringrazia (1971), il capostipite del genere. Non manca, ad esempio, il tentativo (che, a dirla tutta, risulta un po’ forzato) di fare il verso all’impegno sociale caratteristico del filone (le indagini che vengono insabbiate perché tra i clienti delle baby squillo c’è un ministro). Ma il punto forte di questo film è ben altro: consiste essenzialmente nel ritmo serrato con cui il regista gestisce la storia, ben concepita e credibile. E poi nello sguardo cinico e curioso nella provincia italiana (il film è girato a Brescia) e nei suoi inconfessabili misteri.
Il tutto condito dalla colonna sonora non raffinatissima ma efficace di Stelvio Cipriani, che mescola un tema forte eseguito dagli archi con un coro di voci bianche.
Da rivedere, perché, a distanza di oltre quarant’anni riesce ancora ad emozionare, come ogni giallo che si rispetti.
Una domanda per concludere: non è che David Lynch, prima di ideare Twin Peaks, ha dato più di un’occhiata attenta a queste pellicole?
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