Io ho paura. Una lettura particolare degli anni di piombo
Strage di magistrati e polizia in prima linea in una storia torbida di complotti e servizi segreti nell’Italia dei terribili ’70
«Sono il giudice Massimi. Mi occupavo di inchieste sui rapimenti, riciclaggio di denaro sporco, esportazione di valute, attentati politici. In molti possono aver deciso di uccidermi». Il cadavere del magistrato è riverso a faccia in giù sull’asfalto.
Poco distante c’è l’auto con a bordo l’agente di scorta, che giace anche lui crivellato di colpi: «Sei mesi fa raccoglievo le olive, ma guadagnavo troppo poco per potermi sposare. Perciò mi sono fatto raccomandare per entrare nella Polizia. Chi ha ammazzato il giudice avrà avuto le sue ragioni, ma a me mi hanno ammazzato solo perché ero qui. Sono stato sfortunato».
È il 1977, annus horribilis, crocevia tra gli anni di piombo e la loro sulfurea scia di sospetti, accuse, deviazioni istituzionali vere e presunte e tentativi di golpe più o meno veritieri, e la successiva stagione della lotta armata, quando le Brigate Rosse alzeranno il tiro della propria, suicida, lotta allo Stato.
Logico che queste atmosfere perverse e inquietanti filtrassero nel cinema, in particolare in quello di Damiano Damiani, il regista più abile nella sua generazione a conciliare le esigenze di cassetta (e quindi a girare con un occhio nell’obiettivo e l’altro al botteghino) e quelle dell’impegno civile per cui, a partire da Il giorno della civetta (1969), era diventato famoso.
Con Io ho paura (1977) Damiani abbandona temporaneamente il filone dei film di mafia e si immerge negli anni di piombo, pur mantenendo la stessa logica dei suoi film precedenti, in cui la divisione tra buoni e cattivi è sfumatissima e in cui, a differenza del filone più tipico del poliziesco italiano, lo sguardo sui servitori dello Stato (anche di quelli che cadevano come le mosche sotto i colpi della criminalità, comune e mafiosa, e dell’eversione) resta poco indulgente alla retorica.
È un buono, ma ritratto nelle sue debolezze umane il brigadiere Ludovico Graziano, a cui presta il proprio volto scavato e la sua espressione triste l’immenso Gian Maria Volonté, che consegna al pubblico una figura di poliziotto timida e onesta, lontana dal rambismo di Maurizio Merli e dal piglio satirico e nevrotico del dirigente di Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) caratterizzato magistralmente dallo stesso Volonté.
«Diciamolo pure, anzi mettilo a verbale, il brigadiere Graziano ha avuto paura. Io ho paura», dice il brigadiere al capitano La Rosa (il caratterista reggiano Bruno Corazzari), un altro poliziotto onesto lacerato tra le esigenze del proprio corpo di appartenenza e le istanze sindacali, che proprio in quegli anni emergevano con prepotenza nella Polizia di Stato. Ma La Rosa è un personaggio a metà, tra i problemi della base, e le esigenze del potere, impersonate in maniera più o meno pulita dagli alti gradi, ad esempio il maggiore Masseria (l’aitante Giorgio Cerioni, non ancora mattatore del naziporno), timoroso verso i comandi e prepotente verso i sottoposti.
Ma il potere, ecco il punto, ha anche (e soprattutto in questo film) il suo aspetto sporco, rappresentato da quei settori delle forze pubbliche collusi e, per usare un termine tuttora in voga, deviati.
Il personaggio più positivo è il giudice Cancedda (l’attore e regista svedese Erland Josphson, formatosi alla corte di Ingmar Bergman), un magistrato all’antica, coraggioso e ingenuo come solo i puri sanno essere, a cui Graziano viene affidato come scorta («Non avrai problemi: si occupa di quei bei vecchi delitti di una volta», gli dice La Rosa per incoraggiarlo). E, fino a un certo punto, pare proprio così.
Cancedda, orgoglioso e sobrio nel suo ruolo di magistrato, dapprima tenta di respingere il proprio angelo custode: «Se qualcuno ci spara addosso, in un certo senso vuol dire che siamo già morti». Poi accetta la scorta, sebbene sia convinto che «se un giudice ha bisogno di scorte vuol dire che la società civile è finita».
Ma la storia cambia all’improvviso registro, per un beffardo scherzo del destino, che fa scivolare uno dei “bei delitti di una volta” in un caso politico. Ed ecco che l’uccisione di un magazziniere alla dogana, per la quale vengono incriminati in prima battuta due tossicodipendenti, scivola in una trama politica, in cui entrano i servizi segreti e l’eversione nera.
Il riferimento cronachistico non potrebbe essere più evidente: nel 1976, quindi un anno prima di Io ho paura, cadono due magistrati.
Il primo è il sostituto procuratore generale presso la Corte d’appello di Genova Francesco Coco, assassinato da un commando di brigatisti assieme ai due uomini della sua scorta, il brigadiere di Polizia Giovanni Saponara e l’appuntato dei carabinieri Antioco Deiana.
Il secondo è Vittorio Occorsio, ucciso dal terrorista nero Pierluigi Concutelli mentre indagava, fu il primo magistrato a farlo, sulle connessioni tra massoneria deviata, servizi segreti ed eversione.
È il punto apicale di una mattanza iniziata nel ’70 e destinata a continuare nel ventennio successivo con un crescendo spaventoso. È la perdita dell’innocenza della società italiana, in cui le forze dell’ordine si sono trovate in prima linea, quasi impreparate a un attacco frontale, che in buona parte proveniva dello stesso Stato.
Ma le frecciate di Damiani non riguardano solo la magistratura: ad esempio, nel personaggio del terrorista Caligari (lo spezino Paolo Malco, passato da una breve carriera cinematografica nei b movie al successo delle fiction Incantesimo e Centovetrine), è facile rivedere Franco Freda e lo stesso Concutelli e c’è solo l’imbarazzo della scelta nel cercare i corrispondenti storici del colonnello Ruiz, l’alto ufficiale dei servizi segreti legato ai terroristi, interpretato dal fiorentino Raffaele Di Mario, passato dal cinema d’impegno civile alla altrimenti impegnata saga di Fantozzi.
I riferimenti – il puramente casuale dei titoli di coda suona quasi ironico – non riguardano solo le persone: difficilissimo non rileggere nella brevissima sequenza dell’attentato dinamitardo a un treno evocato da Cancedda il riferimento alla strage dell’Italicus, avvenuta nella notte tra il 3 e il 4 agosto del ’74.
Cancedda aiutato da Graziano, che è sempre più reticente, si infila in una pista nera dell’epoca. Il magistrato pagherà con la vita, dopo che tutti i testimoni utili all’inchiesta, a partire da Elsa Meroni, la moglie di un doganiere incriminato dal magistrato (interpretata dalla napoletana Angelica Ippolito, che sarebbe diventata la compagna di vita di Volonté, conosciuto proprio sul set di Io ho paura) sono stati eliminati.
Lo stesso brigadiere scampa per un soffio all’attentato costato la vita a Cancedda e viene riassegnato al giudice Moser (un irriconoscibile e brillante Mario Adorf, senza baffi e riccioli). Moser è di tutt’altra pasta rispetto a Cancedda e lo rivela senza giri di parole: «Io ho solo due passioni: la politica e quella cosa che comincia per f».
Spaventato, Graziano spia Moser e scopre che questi è legato allo stesso settore dei servizi segreti che ha chiesto e ottenuto l’eliminazione di Cancedda. La stessa sorte potrebbe toccare a lui, l’ultimo testimone scomodo dell’inchiesta, nata per caso e abortita nel sangue. Ma la vicenda si sviluppa con una serie di spettacolari colpi di scena, commentati dai motivi funky di Riz Ortolani, che culminano nel finale amarissimo, degno di una storia che mescola in un solido canovaccio politico elementi gialli e noir con un ritmo da thriller.
Da rivedere, a dispetto soprattutto di chi ha considerato Io ho paura un film minore nella produzione del papà de La Piovra. La validità di certi film è storia. E la storia è più tenace dei pregiudizi di certa critica.
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