Perché si uccide un magistrato: la storia di un potere perverso
Un potente procuratore viene assassinato subito dopo che la stampa lo ha messo alla berlina. Ma la verità è un’altra e ben peggiore
«Lei ha fatto molte false accuse contro di me. Sa cosa le chiederebbero prima di tutto in Tribunale?»
«Le prove»
«Ne ha?»
«Facciamo il processo e lo sapremo»
«Allora ha fiducia nella giustizia»
«No, ho fiducia nello scandalo».
Il colloquio avviene in un ricco salotto della Palermo bene. Anzi, più che bene: di potere. Il protagonista è Giacomo Solaris, un giovane reportagista romano (interpretato da un Franco Nero particolarmente in forma) che nel capoluogo ha appena realizzato un film scandalo, oggi lo si chiamerebbe docufiction, sui rapporti proibiti tra politica, criminalità e Palazzo di Giustizia. L’interlocutore di Solaris è Alberto Traini (il sanremese Marco Guglielmi), potentissimo procuratore capo di Palermo e bersaglio polemico del film di Solaris.
Questo dialogo basterebbe da solo a commentare il curioso esperimento di metacinema tentato da Damiano Damiani col suo Perché si uccide un magistrato (1974), terzo capitolo della particolare trilogia (gli altri due sono Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica e L’istruttoria è chiusa: dimentichi) del regista friulano dedicata all’impegno civile e a una particolare rilettura, critica ma non militante, delle vicende di quegli anni.
Rispetto alle altre due pellicole Perché si uccide…fu accolto con una certa freddezza dalla critica dell’epoca e ha recuperato punti solo in seguito alla rivalutazione del cinema di genere avvenuta a partire dagli anni ’90.
Nel caso di questo film, la rivalutazione non è stata una semplice operazione nostalgica a fini commerciali perché il valore c’è eccome. Più semplicemente, è venuto meno quel filone di critica politicizzata che nel ventennio ’60-’80 ha fatto e disfatto e ha relegato in secondo piano opere, come in questo caso, avrebbero meritato di più e non solo per ragioni tecniche.
Torniamo al film: Solaris di sicuro è il buono della storia. Ma è un buono alla Damiani, cioè un personaggio ricco di zone d’ombra in cui la tensione morale fa continuamente i conti con compromessi di vario tipo. Il giovane documentarista, ad esempio, sfida i vertici della magistratura con un’ottica (questa sì) militante, tant’è che mira allo scandalo che considera la chiave per la vera giustizia.
Ma le sue amicizie, come per ogni giornalista che si rispetti, sono borderline. Memorabile, al riguardo, il dialogo con Vincenzo Terrasini (l’ottimo e ironico Renzo Palmer, reduce dai fasti della radio e non ancora approdato in tv), un piccolo boss, amico e informatore:
«Ma allora sei diventato un mafioso di rispetto»
«Ma la mafia…»
«…non esiste»
«Invenzione dei giornalisti»
«Di gente di Milano…»
«Che non conosce le cose della Sicilia…»
«Però la mafia ti protegge, ti avvolge, ti fa sentire come tra due guanciali»
«Se non ci fosse la mafia di che scriveresti? Saresti disoccupato»
«Se non ci fosse la mafia una brava persona come te lavorerebbe senza essere costretta a sfiorare il codice, senza subire prepotenze e ricatti e senza fare prepotenze e ricatti agli altri»
«Io?»
«Sì, forse tu sei meno carogna degli altri, ma le regole del gioco son sempre le stesse»
«Se no, come campi?».
È borderline anche il rapporto tra Solaris e Vincenzo Zamagni (il cinematograficamente sconosciuto Gianni Zavota), un commissario di polizia decisamente sopra le righe e non precisamente sopra ogni sospetto.
Ambiguo, invece, il rapporto tra il documentarista e Antonia Traini (la bellissima Francoise Fabian), la moglie del potente magistrato. Dapprincipio ostile al regista-giornalista, la donna accetta di dialogare con lui e di cercare la verità sul marito.
Finché non arriva il colpo di scena: sulla scia dell’enorme successo del film, il procuratore Traini viene ucciso. E a questo punto inizia la parte gialla della storia, che sfocia nel classico drammone siciliano, in cui pubblico e privato si mescolano.
Nelle indagini sul clamoroso omicidio (di sicuro l’ennesimo riferimento al delitto reale del giudice Pietro Scaglione il procuratore capo di Palermo, all’epoca assai chiacchierato e poi riabilitato a oltre trent’anni dalla morte) si impegnano, oltre che i poco convinti poliziotti guidati da Zamagni, i giornalisti di Sicilia Notte, il giornale con cui collabora Solaris (ed è chiaro il riferimento alle inchieste pesantissime dell’Ora di Palermo) e in cui si segnalano altri tre personaggi di primo piano: la giornalista Sibilla (la stupenda Eva Czemerys, starlet del cinema ’70), il direttore (interpretato dal bravo Mico Cundari, calabrese come Vittorio Nisticò, lo storico direttore dell’Ora) e l’avvocato del giornale, interpretato da Damiani in persona.
È una gara a chi fa prima a scoprire – e ad affermare e a imporre – la propria verità. Una competizione che ha una contropartita pesantissima: i rapporti di potere all’interno del partito dominante, dove due big, legati ognuno per conto suo all’assassinato procuratore, sono entrati in conflitto perché uno di loro è sospettato del delitto.
Sono il parlamentare Ugo Selimi (il caratterista siciliano Elio Zalmuto, habitué dei polizieschi all’italiana) e l’onorevole Derrasi (il caratterista lecchese Giancarlo Badessi, altro volto notissimo del cinema dell’epoca), manager di uno dei tanti scatoloni dell’autonomia siciliana. Selimi, in particolare, è legato al boss latitante Carmelo Bellolampo (il caratterista Vincenzo Norvese, i cui lineamenti particolari lo hanno reso una maschera dei mafia movie a partire dagli anni ’60), mentre Derrasi cura i rapporti con la mafia attraverso l’avvocato Meloria (un Luciano Catenacci al top della cattiveria).
Mentre la doppia inchiesta incalza, la vita di casa Traini prosegue piatta: la vedova, tra l’altro in dolce attesa, si cura del figlio disabile con l’aiuto del medico di famiglia (il bello e algido Giorgio Cerioni, caratterista dal volto tedesco e futuro protagonista del filone effimero e truce dei naziporno). Nel frattempo spunta anche un indiziato: Tano Barra (un eccezionale Tano Cimarosa), un custode di auto povero, ignorante e non troppo intelligente, colpevole di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Poi, mentre il giudice istruttore (il solenne Ennio Balbo) sta per inchiodare Selimi, arriva il colpo di scena, che non è quello sperato dagli avversari del politico né dalla redazione di Sicilia Notte, che ha letteralmente pilotato l’inchiesta con un martellamento continuo.
Il delitto, come ha invece intuito Terrasini, «è privato».
Questa svolta mette Solaris a un bivio: rivelare ciò che ha scoperto e quindi smentire l’inchiesta partita dal suo film e lasciare al suo posto un uomo di potere corrotto, oppure mentire in nome della coscienza civile a cui corrisponde spesso una verità politica?
Probabilmente questa conclusione molto critica nei riguardi del ruolo della stampa nelle vicende giudiziarie («Giacomo, che raccontiamo ai lettori? Che finora abbiamo scherzato?», inveisce contro Solaris il direttore deluso), è il motivo del gelo della critica nei riguardi della pellicola. Una reazione corporativa a un giudizio scomodo simile a quella che avrebbero avuto i media quaranta anni dopo nei confronti di Numero Zero, l’ultimo libro di Umberto Eco, dedicato alle vicende di un improbabile giornale d’inchiesta.
L’apologo morale del film segna una fase di riflusso nel cinema di impegno civile di Damiani che tornerà a meditare sugli aspetti più perversi del potere in altre pellicole prima di toccare il massimo, almeno del successo, con La Piovra.
Poi scorrono i titoli di coda sul tema dolce e malinconico di Riz Ortolani.
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Nello smentire qualunque riferimento dei film di Damiano Damiani sul procuratore Pietro Scaglione, i suoi congiunti in un libro su cinema e mafia scrissero nella lunga lettera di rettifica tra l’altro i seguenti due punti:
1) “In sede giurisdizionale, è stato accertato che il dott. Pietro Scaglione, Procuratore capo della Repubblica di Palermo, svolse le funzioni giudiziarie «in modo assolutamente specchiato», fu magistrato «dotato di eccezionale capacità professionale e di assoluta onestà morale», «di indiscusse doti morali e professionali»,
«estraneo all’ambiente della mafia ed anzi persecutore spietato di essa» e che «tutta la rigorosa verità è emersa a positivo conforto della figura del magistrato ucciso», sia per quanto concerne la sua attività istituzionale, sia in relazione alle sue amicizie e alla sua vita privata (così come si legge nella motivazione della sentenza
1 luglio 1975 n. 319 della Corte di appello di Genova, sezione I penale, passata in giudicato a seguito di conferma della Cassazione, pubblicata in Camera dei deputati, IX legislatura, Atti della Commissione parlamentare antimafia, Documenti, 1984, vol. IV, tomo 23, doc. 1132, pag. 729 sgg.).
2) Quanto all’omicidio del procuratore Scaglione, l’autorità giudiziaria di Genova ha accertato che i possibili moventi del delitto sono, in ogni caso, da ricollegare all’attività doverosa e istituzionale svolta dal magistrato Scaglione. In particolare:
a) nel corso delle ventennali indagini relative all’omicidio del procuratore Scaglione «la ricerca di motivazioni o legami di carattere privato si è rivelata vana», così come «nulla di sospetto o di equivoco emergeva dall’attento esame della pregressa attività giudiziaria svolta – in modo specchiato – dal defunto procuratore Scaglione (cfr. le deposizioni dei sostituti procuratori Rizzo, Coco, Puglisi, del maggiore dei
Carabinieri Ricci e del capitano dei Carabinieri Russo, e, in epoca successiva, dello stesso superpentito della mafia Tommaso Buscetta)» (così come si legge in Tribunale di Genova, Ufficio del Giudice istruttore, sentenza-ordinanza, 16 gennaio 1991, proc. pen. n. 2144/71 R.G. e n. 692/71 R.G.G.I.).
b) il Ministro della Giustizia, con decreto n. 3772 del 20 novembre 1991, previo parere favorevole del Consiglio Superiore della Magistratura e rapporto del Procuratore generale della Repubblica di Palermo, ha riconosciuto al defunto Procuratore della Repubblica Scaglione lo status di «magistrato, caduto vittima del dovere e della mafia, in Palermo, il 5 maggio 1971»…”
In realtà il regista Damiano Damiani smentì qualunque collegamento tra i suoi film e l’omicidio del procuratore Pietro Scaglione.
A proposito dei 2 film di Damiani i familiari del procuratore Pietro Scaglione hanno rettificato i libri che associavano i film al loro congiunto.
In particolare nella lettera di rettifica pubblicata in un libro su cinema e mafia i familiari del procuratore Pietro Scaglione hanno scritto:
“Il regista Damiano Damiani smentì ufficialmente i riferimenti al Procuratore Pietro Scaglione in entrambi i film. Per quanto riguarda il film Confessione di un commissario al Procuratore della Repubblica, Damiani dichiarò: «Il mio film non aveva nulla a che vedere con quel caso».
Per quanto riguarda il film Perché si uccide un magistrato, Damiani ovviamente smentì qualunque analogia tra la trama del film e l’omicidio del procuratore Pietro Scaglione («naturalmente quel delitto non era un delitto privato»). Peraltro, il procuratore Scaglione era vedovo da 6 anni prima di essere ucciso e fu assassinato
davanti al cimitero dei Cappuccini dove aveva deposto fiori sulla tomba della moglie”.