La mala ordina: un viaggio in nero nella delinquenza degli anni ’70
Un pappone braccato dal boss e costretto a diventare duro suo malgrado nel film che ispirò Quentin Tarantino
Brutale, esagerato, crudo e un po’ nichilista, pieno di sequenze d’azione fantastiche e personaggi indimenticabili.
La mala ordina (1972), girato subito dopo Milano Calibro 9 (1971), è il secondo film della cosiddetta trilogia del milieu, con cui il regista pugliese Fernando Di Leo si conferma firma di prima grandezza del noir all’italiana. Come per la precedente pellicola, resta l’ispirazione di Giorgio Scerbanenco, su cui i filologi hanno speso i consueti fiumi d’inchiostro a partire dagli anni ’90.
Al riguardo, non c’è rivista o sito web che non ricordi il curioso scambio per cui il soggetto de La mala ordina fu tratto dal racconto Milan by Calibro 9 dello scrittore ucraino e, viceversa, quello di Milano Calibro 9 si ispirò in parte a un altro racconto scerbanenchiano: Stazione Centrale ammazzare subito. Ma nei primi anni’70, la sorte di questo (e, in genere, degli altri film di Di Leo) fu diversa: niente filologi e cinefili pronti a discettare sui singoli fotogrammi, ma critici impietosi e iperpoliticizzati, che gettarono il film nel tritacarne con le consuete accuse di gratuità, violenza e assenza di contenuti.
Era così? Lo fu sicuramente per quella pattuglia di firme annidate nelle principali testate che fece il bello e il cattivo tempo. Lo fu assai meno per il pubblico, che garantì incassi notevoli.
Scendiamo un po’ più nel dettaglio per capire perché questo film è diventato un cult. La principale è senz’altro il ritmo serrato, scandito da scene d’azione indimenticabili (citatissimi l’inseguimento tra i navigli e la sparatoria finale nel cimitero delle auto) e da colpi di scena continui, orchestrati con abilità da Di Leo e valorizzati dal montaggio frenetico e inedito per l’epoca di Amedeo Giomini.
La seconda ragione è la ipercaratterizzazione dei personaggi, favorita dalla sceneggiatura solida firmata a tre mani dallo stesso Di Leo, da Augusto Finocchi e Ingo Hermes.
Spariscono quasi del tutto i già pochi riferimenti sociologici di Milano Calibro 9. Anzi, si potrebbe dire che in La mala ordina la psicologia prenda il posto della sociologia. E non è psicologia spicciola. Al riguardo, soccorre parecchio l’influenza scerbanenchiana e il particolare approccio dileano alla materia criminale: «A differenza di Melville e di Houston», avrebbe raccontato anni dopo il regista ai critici di Nocturno Cinema, «io non avevo una visione romantica e idealizzata dei delinquenti, perché li conoscevo bene, essendo figlio e nipote di avvocati penalisti».
Proprio nel secondo film della trilogia c’è l’incontro più riuscito tra il realismo criminale del regista pugliese e la visione cinica e cruda dello scrittore ucraino. Senz’altro proviene da Scerbanenco la descrizione dell’ambiente in cui si svolge la vicenda.
Lo sfondo della storia è di nuovo Milano, ritratta nel suo lato oscuro, in quella massa di diseredati attratti dal boom economico e costretti a vivere ai margini della ricchezza e dei modelli borghesi, che il decennio successivo sarebbero esplosi nel mito della Milano da bere. Tra l’altro, in La mala ordina c’è un grande assente: lo Stato. Tranne che in una sequenza iniziale, non si vede neppure un poliziotto in tutto il film, in cui i protagonisti sono i delinquenti. E questa caratteristica rende ancor più cupo e straniante l’impatto della pellicola, visto che gli spettatori sono costretti a distinguere tra buoni e cattivi in un ambiente perlomeno discutibile.
Di sicuro il protagonista è un buono. Luca Canali (interpretato da uno strepitosissimo Mario Adorf) è uno sfruttatore di prostitute, coinvolto suo malgrado in un intrigo malavitoso internazionale dal boss don Vito Tressoldi (un Adolfo Celi più cattivo che mai), che scarica su di lui la colpa della sparizione di un ingente quantitativo di droga, sottratto al narcotrafficante americano Corso (il caratterista irlandese Cyril Cusack).
Quest’ultimo invia a Milano due killer, per fare chiarezza e vendicare l’affronto («Dev’essere un’azione eclatante, in pieno giorno e alla luce del sole: impiccatelo sulla Madonnina, perché tutti in Italia capiscano cosa può accadere a chi si mette contro di noi»).
I killer sono l’italoamericano David Catania (il mitico Henry Silva, un Charles Bronson minore che diventerà attore feticcio del cinema popolare anni ’70) e l’ex marine Frank Webster (il nero ed erculeo Woody Strode, altro volto noto del cinema d’azione dell’epoca). Su questa coppia vale la pena di spendere qualche parola, visto che tutti i critici, a partire dagli anni ’90, ci hanno raccontato in maniera plausibile che al duo Silva–Stroode si è ispirato Quentin Tarantino per il suo celebre duo, John Travolta–Samuel L. Jackson, immortalato nel supercult Pulp Fiction. In effetti le due coppie si somigliano parecchio: spaccone, verbomane e rissoso il bianco, compassato e riflessivo il nero.
Silva e Stroode, comunque, pesano nell’economia del film al pari di Adorf. Al punto da risultare simpatici e da lasciare persino un po’ di amarezza nello spettatore dopo il finale (che non riveliamo come al solito, ma che i lettori possono scovare su Google tranquillamente).
I due sono accompagnati nella loro ricerca assassina da Eva Lalli (la bella Luciana Paluzzi, già cattivissima bond girl in Thunderball-Operazione Tuono dove, per un curioso caso della storia del cinema, il cattivo era impersonato da Adolfo Celi) una hostess incaricata di guidarli nella Milano by night.
Luca il magnaccia, braccato sia dal boss don Vito sia dai due americani, resta isolato. Gli uccidono la ex moglie Lucia (interpretata da una castigatissima Sylva Koscina, starlet jugoslava, del cinema italiano) e la figlioletta Rita (la tedesca Lara Wendel, che sarebbe diventata un volto e corpo noto del cinema italiano degli anni ’80).
Persino gli amici, Nicola il barman (Gianni Macchia, lanciato da di Leo e piuttosto attivo nel filone erotico) e il meccanico Enrico (Franco Fabrizi, già bello del cinema italiano dei ’60 ed ex vitellone di Fellini), lo tradiscono. Lo abbandona anche Nana (la supersexy Femi Benussi, altra starlet italo-jugoslava), la sua protetta, che comunque subirà un pestaggio efferato dai picciotti di don Vito.
Unica eccezione nell’isolamento umano di Luca è Triny (la simpatica Francesca Romana Coluzzi, che in questo film riesce anche ad essere sexy), una contestatrice che vive in una comune e offre rifugio al protagonista. Giusto per gli amanti delle curiosità, val la pena ricordare che tra gli hippy della comune c’è un giovanissimo e non ancora famoso Renato Zero. Il tutto è commentato dalla notevole colonna sonora di Armando Trovajoli, che idea uno dei primissimi esempi di funky jazz all’italiana per le scene violente di La mala Ordina.
La tragedia umana, unita alla caccia senza quartiere, crea una metamorfosi terribile in Luca, che da pappone disprezzato diventa giustiziere. Un apologo crudo, che fa la differenza con il racconto di Scerbanenco.
Un film da rivedere. Ed era da rivedere anche prima che Quentin Tarantino lo rivalutasse. Con buona pace dei radical chic che ancora allignano nella critica che conta. Anche di quelli che hanno rivalutato questo film con colpevole ritardo.
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