Milano Calibro 9. I retroscena oscuri della capitale morale d’Italia
Fernando di Leo si ispira a Giorgio Scerbanenco per riscrivere i canoni del noir e inventare il poliziesco all’italiana
Milano Calibro 9 (1972) è uno dei film di genere più vivisezionati dai critici. Anche da quelli che fino agli anni ’80 avevano massacrato non solo il cinema di Fernando di Leo, ma anche tutta la tradizione del poliziesco italiano.
Che questo pregiudizio fosse più ideologico che artistico va da sé. E va da sé che anche l’ideologismo fosse una moda: nel caso del regista pugliese, scomparso a Roma nel ’73, sono bastati gli elogi di Quentin Tarantino, che lo considera una delle sue massime ispirazioni, e lo scavo filologico operato dagli specialisti di Nocturno Cinema perché il cinema dileano venisse riabilitato.
Ed ecco che Milano Calibro Nove è diventato sinonimo del noir italiano, più duro e sporco, all’altezza dei classici di John Houston e di Jacques Melville. Non solo: è quasi un riflesso condizionato anche associare questo film alla figura di Giorgio Scerbanenco, magari come massima espressione cinematografica dell’opera dello scrittore italo-ucraino.
Infine, Milano Calibro 9 è associato agli Osanna, celebre band partenopea di progressive rock, coautori assieme a Luis Bacalov della colonna sonora.
Più che un film, un marchio. Sul quale, tuttavia, occorre fare un po’ d’ordine.
È vero, innanzitutto, che il film di di Leo si ispira all’antologia di racconti scerbanenchiani, intitolata appunto Milano Calibro 9 ed edita da Garzanti nel 1969, poco prima della morte dell’autore. Ma è un’ispirazione più che altro contenutistica e di atmosfera: di Leo non riprende nessuno dei racconti della raccolta.
Anzi, per paradosso, il racconto Milano Calibro 9 (il cui titolo originale era Milan by Calibro 9) fornirà la trama al successivo La Mala Ordina (1972) che, assieme a Il Boss (1973) costituirà la cosiddetta trilogia del milieu, in cui secondo gli appassionati c’è lo zoccolo duro del cinema dileano.
L’unica parte della trama davvero scerbanenchiana è ripresa, invece, dal racconto Stazione centrale ammazzare subito. Una precisazione è doverosa: di Leo si era già confrontato con Scerbanenco, e in maniera più filologicamente corretta, con I ragazzi del massacro (1969), che trasponeva in maniera fedele l’omonimo romanzo dello scrittore di Kiev. Ma allora, come mai tanta enfasi su Milano Calibro 9?
La parola cult per questo film è davvero poco. Anzi: si può dire che Milano… sta al poliziesco all’italiana come L’Uccello dalle Piume di Cristallo al thriller e il Giorno della Civetta al cinema d’impegno civile: con questa pellicola di Leo riscrive, anzi stravolge, i canoni del noir e detta le regole al cinema d’azione che verrà dopo.
Ritmo, trama solida e raccontata in maniera convincente, personaggi ipercaratterizzati e violenza grafica: è la ricetta che rende Milano… un capolavoro. E che soprattutto conferisce l’autoralità a un film di genere, concepito, così come i romanzi di Scerbanenco, per un pubblico in cerca di emozioni forti e senza troppe pretese intellettuali.
Ciò non vuol dire, si badi bene, che Milano… non abbia un suo spessore. Innanzitutto culturale, perché Di Leo, come già Scerbanenco, smitizza la Milano dei tardi anni ’60, non ancora da bere ma già capitale morale dell’Italia del boom. La Milano dileana è una città cupa, livida, popolata da un sottobosco di malavitosi disposti a tutto, personaggi dalla psicologia infima e dal senso morale praticamente nullo.
È la Milano delle periferie cresciute a dismisura grazie alla massiccia immigrazione meridionale, tra cui la malavita avrebbe fatto molte reclute («Finalmente un delinquente che non è meridionale», dice a commento di una delle scene clou Frank Wolff, nel ruolo del commissario napoletano, cinico e retrogrado). Anche le riprese in centro, non ancora sede della movida ma comunque zona in, sono filtrate con lo sguardo dei malavitosi, grazie alla fotografia plumbea di Franco Villa).
Inutile cercare un buono in questa storia, che si risolve in una parabola nichilista.
Non è buono Ugo Piazza, il protagonista (un Gastone Moschin già mattatore della commedia all’italiana e a suo agio nei panni del gangster, che avrebbe indossato di nuovo ne Il Padrino II di Coppola), nonostante la sua aria di duro tutto d’un pezzo.
Al contrario, il cattivissimo Rocco (uno strepitoso Mario Adorf, interprete sopra le righe nel ruolo del capomanipolo) alla fine si redime in nome del perverso senso dell’onore con cui vendica quello stesso Piazza che per il resto del film vorrebbe ammazzare.
Non è buona (bona, sì) Nelly (la bellissima Barbara Bouchet, protagonista in Milano… della scena cult della danza nel night), autrice del tradimento finale, la furba che annulla il cinismo spregiudicato di Piazza.
Invece, l’Americano, il boss potentissimo, è una figura mediocre, quasi bidimensionale (grazie all’interpretazione efficacissima di Lionel Stander, non ancora il maggiordomo bonario di Cuore e Batticuore).
Forse sono buoni Don Vincenzo, l’anziano boss decaduto e cieco (interpretato dal bravo Ivo Garrani) e Chino, il suo figlioccio killer (Philippe Leroy, convincente nel ruolo del picciotto senza macchia) che muore per vendicarlo dopo aver compiuto un’autentica carneficina.
Moderna, rispetto a Scerbanenco, è la lettura della mafia operata da di Leo: i criminali di Milano… non spacciano droga e non estorcono il pizzo ma trafficano in valuta. Rispetto alla mala raccontata dal cinema di quegli anni, siamo al terziario avanzato («La mafia vera non esiste più», dice Don Vincenzo, «ora sono solo bande in lotta tra loro. I trafficanti di droga investono nel cemento e i palazzinari sparano». «Siamo diventati moderni: ora importiamo calcolatori elettronici», ironizza Rocco in un’altra scena).
Non racconteremo la trama di Milano Calibro 9 per due motivi: innanzitutto perché un noir è comunque un giallo e poi perché come tutti i cult, è di sicuro un film più citato che visto, almeno dalle nuove generazioni. Ne accenniamo quel che basta per incuriosire.
Il protagonista, Ugo Piazza, reduce dal carcere, è sospettato dal suo ex boss, per cui faceva il corriere di denaro, di aver rubato 300mila dollari. Ciononostante l’Americano lo riprende a lavorare con sé per tenerlo sotto controllo. Tutta la storia, tra tanti colpi di scena, uno più sanguinoso dell’altro, si dipana in una settimana, fino al finale tragico, che lascia lo spettatore disorientato.
Non a caso, nell’edizione originale di Milano…ogni cambio di scena è scandito dalla data del calendario sovraimpressa. Nell’edizione riprodotta per l’home video, invece, lo scorrere del tempo insufficiente a contenere l’incalzare degli eventi, è rappresentato dall’inquadratura finale: il mozzicone della sigaretta di Piazza che continua a bruciare, su cui scorrono i titoli di coda. Un altro colpo da maestro per lanciare un angosciante messaggio finale, scandito dai violini di Bacalov che duellano con i riff heavy degli Osanna.
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