Fascismo e Islam, storia proibita di una trasgressione geopolitica
La politica mediterranea dell’Italia e i rapporti complessi col mondo arabo, iniziati col fascismo e proseguiti nel neofascismo, istituzionale e non, della Prima Repubblica. Una lezione di storia salutare per chi, a destra, usa la xenofobia anti islamica per fabbricare consensi…
L’Italia, sin dall’Unità, ha puntato a ritagliarsi uno spazio nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, sbocco naturale per lo sviluppo di un paese in larga parte costiero, costretto a convivere con le pressioni esercitate da ingombranti vicini quali Gran Bretagna e Francia. L’espansione dell’influenza politica e commerciale nei territori mediterranei e mediorientali rappresentò sin da subito un passo fondamentale per la completa maturazione del giovane Stato italiano, che già tra la fine della Prima guerra mondiale e l’affermazione del fascismo si presentò come la nazione in grado di fare da tramite fra Oriente e Occidente.
Nel primo dopoguerra, infatti, il mondo arabo era attraversato da moti di insofferenza e di ribellione dovuti alla frustrazione delle aspirazioni indipendentiste da parte, appunto, della Francia e della Gran Bretagna, che posero i territori arabi sotto mandato. In questo contesto le varie delegazioni arabe che – ufficialmente o meno – agivano in Europa trovarono in Italia un’atmosfera politica favorevole alle loro istanze.
Iniziò così la storia, complessa e di lunga durata, dei rapporti tra fascismo e mondo arabo, destinata a protrarsi anche oltre la caduta e la morte di Mussolini, nell’azione politica degli eredi del Ventennio.
Questa interessante vicenda è stata ricostruita da Elisa D’Annibale, Veronica De Sanctis e Beatrice Donati nel volume Il filoarabismo nero. Note su neofascismo italiano e mondo arabo (1945-1973), edizioni Nuova Cultura, incluso all’interno della collana di storia e culture d’Europa I chioschi gialli, promossa dal Dottorato di ricerca in «Storia d’Europa» della Sapienza di Roma.
Nel primo dei tre saggi che compongono l’opera – Il Msi, la politica estera italiana e il mondo arabo nel secondo dopoguerra (1945-1973) – Veronica De Sanctis mette innanzitutto in evidenza l’ambiguità dell’atteggiamento fascista nei confronti del mondo arabo. Come rilevato da Renzo De Felice, almeno sino alla fine degli anni Venti il regime non portò avanti una politica araba autonoma, sia per il prevalere nel Duce dell’interesse per la politica interna, sia a causa del sostanziale appiattimento della sua politica estera su quella britannica, sia infine per la difficoltà di avviare discorsi politici con gli arabi mentre era in corso la riconquista della Libia.
Solo a partire dagli anni Trenta, e ancor più dopo la guerra d’Etiopia, il fascismo decise di adottare una strategia mediterranea apertamente filoaraba, ampliando l’azione culturale ed economica nell’Africa settentrionale e nel Medio Oriente: in tale direzione andarono l’apertura della Fiera del Levante nel 1930 e la creazione dell’Istituto di Studi per il Medio e l’Estremo Oriente (Ismeo), inaugurato nel dicembre del 1933.
La tendenza italiana alla proiezione nel Mediterraneo ritornò anche in un contesto completamente mutato come quello del secondo dopoguerra, in un’Italia «che per un verso vedrà la sua azione internazionale complessiva sensibilmente ridotta o condizionata dal confronto bipolare, ma che, per altro verso, sarà in grado di mettere in moto una politica mediterranea e mediorientale caratterizzata per attivismo e incisività al punto da essere definita il solo episodio di politica di potenza dell’Italia postbellica».
Nel secondo saggio, Rivolta contro il mondo moderno: il filoarabismo del Centro Studi Ordine Nuovo tra razzismo e Tradizione, Elisa D’Annibale si cimenta nella non facile impresa di tracciare uno schema ordinato delle posizioni dei gruppi neofascisti sul problema dei rapporti tra Italia e mondo arabo dopo la Seconda guerra mondiale. La riflessione circa l’Islam e l’appoggio alle rivendicazioni arabe fu uno di quei temi divisivi che portarono a una profonda spaccatura fra il partito legale, il Movimento Sociale Italiano, e alcuni suoi componenti i quali, lasciata la Fiamma, diedero vita a gruppi estranei alla logica politica istituzionale.
In sintesi si può dire che, mentre il filoarabismo non intercettò il consenso della linea politica ufficiale del Msi, esso invece riscosse notevole successo nel mondo del neofascismo «sotterraneo». Fra i gruppi che maggiormente si interessarono alla questione, può senz’altro essere collocato il Centro Studi Ordine Nuovo (On), di Pino Rauti «che, oltre a pubblicare alcuni articoli sull’argomento, fornì una vera e propria base ideologica e spirituale a sostegno della causa».
Il gruppo trasse i propri riferimenti culturali e simbolici dagli scritti dell’aristocratico romano, di origini siciliane, Julius Evola, il cui pensiero si svolgeva attorno al concetto chiave di «Tradizione». La concezione tradizionale dell’Essere, nella filosofia evoliana, comprendeva ogni atteggiamento che individuava il fondamento delle cose in un ordine trascendente cui dovevano essere subordinate tanto la dimensione mondana dell’esistenza quanto la dimensione interiore dell’essere stesso.
Nella sua opera più conosciuta, Rivolta contro il mondo moderno, Evola dedica alcuni capitoli alle popolazioni arabe, analizzando queste ultime sul piano sociologico in base al già ricordato concetto di Tradizione. L’autore si sofferma in particolare sulla collettività islamica, a suo dire imperniata su una fondamentale caratteristica: quella, appunto, tradizionalista, che la rendeva una società ben distante dal pericolo della corruzione spirituale moderna, e quindi più di altre predisposta al raggiungimento di una «razza dello spirito» pura.
Sul piano delle concrete scelte politiche, l’influenza evoliana si tradusse nell’appoggio dato dagli ordonovisti all’Egitto di Nasser, impegnato nella costruzione di un socialismo nazionale «che, nella prospettiva geopolitica nasseriana dell’unità della Nazione Araba, sarebbe dovuto diventare un vero e proprio socialismo panarabo, basato su presupposti spirituali forniti dall’Islam».
A questa presa di posizione, tuttavia, si oppose proprio lo stesso Evola: il maestro spirituale dei movimenti dell’estrema destra si dissociò, infatti, dal generale appoggio all’Egitto fornito dai suoi discepoli, temendo che l’emancipazione dell’Islam avrebbe condotto il panarabismo, in via naturale, fra le braccia del comunismo.
Sull’Egitto di Nasser, comunque, si registrò una sostanziale convergenza fra Ordine Nuovo e il Movimento Sociale, che a esso guardò con simpatia soprattutto in funzione antibritannica.
Radicale fu, invece, il distacco delle due anime del neofascismo – quella istituzionale e quella ordonovista – a proposito della Guerra dei sei giorni, che vide scontrasi nel 1967 Israele con Egitto, Siria e Giordania. In questo caso, il Msi sostenne compattamente e con convinzione le ragioni israeliane; Ordine Nuovo, invece, si schierò apertamente per il fronte arabo: scelta, questa, non estranea all’antisemitismo del gruppo.
Una critica marcata alle scelte di politica estera missina giunse pure dal periodico L’Orologio, diretto per un decennio, a partire dal 1963, dal reduce della Repubblica Sociale Italiana Luciano Lucci Chiarissi.
Beatrice Donati ne ricostruisce le vicende all’interno del terzo e ultimo capitolo de Il filoarabismo nero: Due riviste nella temperie degli anni Sessanta. Lo sguardo de «L’Orologio» e di «Corrispondenza repubblicana» sul mondo arabo.
L’Orologio era permeato da un tenace antiamericanismo, che affondava le radici in una condanna decisa dell’imperialismo statunitense e nel vagheggiamento di un terzo polo in grado di infrangere gli equilibri stabiliti a Yalta. La rivista di Lucci Chiarissi, di conseguenza, rivendicò costantemente il diritto di «detenere le chiavi di casa propria» per l’Italia, per l’Europa e per tutti i popoli in lotta per la costruzione di stati nazionali autonomi, da quelli dell’America latina a quelli, appunto, arabi. La linea filoaraba de L’Orologio si manifestò non solo nel costante sostegno espresso a favore dei paesi del mondo arabo e dei loro nazionalismi, ma anche attraverso l’esaltazione dell’opera di Enrico Mattei. Questi, pur distante dall’universo politico-ideologico dei redattori del periodico, aveva però ai loro occhi il merito di riconoscere l’esigenza che l’Italia assumesse, nel settore delle fonti energetiche, una posizione autonoma rispetto a quella delle grandi compagnie petrolifere mondiali: «Una strategia che aveva quindi indotto il presidente dell’Eni anche a sostenere gli Stati arabi in lotta per la sovranità economica».
Su un’orbita eccentrica rispetto alla linea ufficiale del Msi si collocò, nello scorcio degli anni Sessanta, un’altra rivista che si poneva nel solco del fascismo di sinistra, ovvero Corrispondenza repubblicana, espressione di alcuni settori della Federazione Nazionale Combattenti della RSI di Roma. Sin dai primi numeri, infatti, i redattori del quindicinale romano espressero apertamente l’inconciliabilità della loro linea politica con quella della destra missina, «ritenuta ormai compromessa con il sistema democratico-parlamentare e attestata su posizioni filoamericane giudicate incompatibili con l’indipendentismo antioccidentale e antisovietico da loro invece auspicato».
La polemica antioccidentalista e antimperialista avrebbe perciò rappresentato uno dei principali fili conduttori del periodico: già sul primo numero, nelle pagine di politica estera, fu data un’attenzione particolare alla posizione della Francia gollista nei riguardi della Nato e, fuori dall’Europa, agli sviluppi della guerra del Vietnam.
A partire dalla primavera del 1967, nella redazione di Corrispondenza repubblicana si costituì il Centro Politico Autonomia Europea, di cui fu eletto segretario Maurizio Giraldi. Da quel momento in poi, il quindicinale accentuò le sue istanze rivoluzionarie, di matrice antiborghese, del tutto dissonanti con ogni soluzione conservatrice, al punto che sulle sue colonne fu valutato negativamente un regime militare di destra come quello, appena instaurato in Grecia, dei colonnelli.
Nel corso di quello stesso anno, i redattori di Corrispondenza repubblicana, sempre attenti al panorama internazionale, proposero letture tutt’altro che superficiali e sbrigative anche degli avvenimenti mediorientali, «non mancando di esprimere – pur nel quadro di una scelta di campo filoaraba – giudizi drastici e critici sull’azione in special modo di Nasser».
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