Politicamente corretto. Breve storia di una superstizione contemporanea
Secondo Eugenio Capozzi, che ha dedicato un interessante volume all’argomento, il politicamente corretto è un’ideologia che nasce sulle ceneri delle grandi battaglie libertarie, sorte nel cuore dell’Occidente. Come il neo-progressismo stravolge e distorce le istanze di progresso ed emancipazione e le trasforma in un pensiero totalitario
Le classi dirigenti delle società occidentali contemporanee hanno adottato, negli ultimi decenni, una retorica che pretende un monopolio inflessibile sulla dialettica civile e politica riguardo a ogni caso – vero o presunto – di discriminazione, diseguaglianza, diritti, convivenza, tolleranza, inclusione. Questa retorica, il politicamente corretto, ha ambizioni totalitarie: essa auspica che i suoi dogmi vengano universalmente condivisi a prescindere, e identifica se stessa come l’idea medesima di progresso, veicolata in ogni sede.
Da tempo, tuttavia, settori sempre più ampi delle società che hanno incubato il politicamente corretto manifestano verso di esso chiari segni di rifiuto, o comunque tendono a metterne in discussione gli assunti in maniera sempre meno dissimulata. Parallelamente, in Europa e negli Stati Uniti, si è assistito al sorgere di nuove forze politiche che si distinguono per le posizioni apertamente polemiche verso aspetti significativi dell’agenda politicalcorrettista.
In genere questi movimenti vengono identificati e bollati dal mainstream progressista come fenomeni pericolosi, caratterizzati da spinte regressive e da un retroterra fatto di xenofobia, razzismo e intolleranza. Accomunati, di volta in volta, sotto definizioni come populismo, sovranismo o neo-nazionalismo, tali soggetti politici hanno intercettato le ansie dei ceti sociali impoveriti dalla globalizzazione economico-finanziaria, il timore dell’espropriazione della sovranità popolare da parte delle oligarchie transnazionali e le crescenti preoccupazioni per la sicurezza dovute al disordine delle migrazioni di massa e delle società multietniche.
Queste dinamiche socio-culturali, a causa della loro complessità e della loro ormai lunga durata, richiedono di essere analizzate come oggetto di studio storico e di essere quindi svincolate dalle polemiche pamphlettistiche che mirano di solito a ridurre il discorso a una contrapposizione tra tifoserie: lo ha fatto Eugenio Capozzi, napoletano, professore ordinario di Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere della Suor Orsola Benincasa, nel saggio Politicamente corretto. Storia di un’ideologia, edito da Marsilio alla fine del 2018.
Capozzi definisce il politicamente corretto «religione secolarizzata, che condanna in blocco la razionalità occidentale come una struttura di dominio».
I dogmi del neo-progressismo possono essere raggruppati in quattro blocchi principali: il multiculturalismo, ovvero l’equivalenza fra le culture e le civiltà; l’identificazione dei desideri con i diritti, portato della rivoluzione sessuale, antropologica e biopolitica; l’ecologismo ideologizzato e l’antiumanesimo ambientalista quali presupposti della messa ai margini della civiltà umana rispetto alla salvaguardia dell’ambiente; infine, la concezione dell’identità non come eredità naturale e storica, ma come scelta soggettiva, espressione dell’autodeterminazione individuale e collettiva.
Lo studioso napoletano traccia una linea storica dell’evoluzione dell’ortodossia neo-progressista, individuandone le prime significative manifestazioni nel periodo del secondo dopoguerra, allorché l’anticolonialismo e la conversione della sinistra dal marxismo classico al terzomondismo condussero a una radicale contestazione dei modelli culturali «europei». Alla base di questo rigetto della civiltà occidentale stava l’idea diffusa secondo cui le culture dei popoli extraeuropei assoggettati sarebbero state depositarie di un’innocenza originaria macchiata dai dominatori.
Intanto negli Stati Uniti – e, di riflesso, nel resto dell’Occidente – due grandi questioni politiche impressero un’ulteriore accelerazione alla svolta verso il relativismo culturale: la nascita del movimento per l’uguaglianza dei diritti civili della popolazione afroamericana, sotto la leadership di Martin Luther King, e la partecipazione degli Stati Uniti alla guerra del Vietnam.
Il primo movimento si sarebbe potuto vedere come il sofferto e giusto coronamento di un lungo percorso di emancipazione iniziato nel XIX secolo, e come la piena realizzazione delle premesse del regime costituzionale statunitense. Tuttavia, nell’opinione pubblica mondiale questa istanza genuinamente libertaria e umanitaria venne a confondersi, per poi esserne assorbita, con le tessere del mosaico ideologico che raffigurava l’Occidente come un sistema oppressivo in quanto tale.
Quanto alla guerra del Vietnam, la rivolta pacifista contro il conflitto andò anch’essa a collocarsi nel contesto di una cultura diffusa «in cui prevaleva un’ostilità preconcetta alla way of life e agli ordinamenti politici occidentali, e una simpatia altrettanto preconcetta per le altre civiltà». La ribellione antimilitarista – divampata nei campus universitari americani – si espresse poi nella controcultura, nell’arte underground, nelle comuni hippie, nel sostegno alle lotte dei neri americani e nella battaglia pacifista sul Vietnam, traducendosi in azione politica e in movimento di massa.
Ben presto, tuttavia, l’anelito alla liberazione personale e collettiva dai vincoli sedimentati nella storia della civiltà europea si estese alla sfera individuale, familiare e sessuale. Il femminismo di seconda generazione, nato nell’ultimo dopoguerra, sorse su basi molto diverse rispetto a quello originario, che rivendicava il diritto al voto delle donne e la loro piena integrazione civile e politica nelle democrazie liberali. Esso, infatti, si pose quale opposizione alla mentalità della «società patriarcale e maschilista», che per secoli o millenni avrebbe tenuto le donne in uno stato di sottomissione non soltanto a livello giuridico e politico, ma prima di tutto sociale e psicologico. Poiché, dunque, l’egemonia del «patriarcato» le avrebbe designate unicamente come mogli e madri, le donne avrebbero iniziato la loro liberazione dalla riconquista della «sovranità» sul corpo, a partire dalla sfera della sessualità e della maternità.
Le varie rivendicazioni connesse alla libertà sessuale e all’emancipazione femminile – l’introduzione del divorzio, la libertà di usare qualsiasi metodo contraccettivo, la legalizzazione dell’aborto – avevano in comune la decostruzione dell’istituto familiare occidentale, che era riuscito a sopravvivere alla rivoluzione industriale, all’avvento dei mass media, ai totalitarismi e alle guerre mondiali.
In questa trasformazione si inserì anche la nascita dei movimenti di liberazione omosessuale, verificatasi a partire dalla fine degli anni Sessanta del ’900. Al di là delle differenze, il fine ultimo del liberazionismo etero e omosessuale era il medesimo: «Un sesso senza vincoli, praticato da individui interscambiabili, tradotto nell’esecuzione di gesti di contatto fisico ripetibili un numero indefinito di volte, in tutte le modalità rispondenti alle scelte degli individui e alle transazioni tra loro».
Sul piano comunitario la convergenza tra «indeterminazione» e «autodeterminazione» si è tradotta nell’allentamento dei criteri attraverso cui le relazioni internazionali si erano definite in epoca moderna e contemporanea.
Questo processo è stato indubbiamente favorito dal repentino crollo degli schieramenti della guerra fredda, che ha sollecitato l’emergere di innumerevoli minoranze etniche e culturali, ognuna delle quali ha rivendicato la sua specificità, i suoi diritti e spesso la sua indipendenza rispetto alle compagini statuali in cui era inserita. I sostenitori dell’autodeterminazione identitaria integrale hanno sostenuto perciò l’idea che lo Stato nazionale di tipo eurocentrico fosse ormai al tramonto, e che al suo posto si andasse costituendo un’armoniosa coesistenza fra una dimensione politica sovranazionale – continentale o globale – e una regionale e locale, da essi ritenuta più rispettosa delle libertà e dell’autogoverno delle varie comunità.
Tuttavia – afferma Capozzi – l’istanza identitaria, ennesimo caposaldo del politicamente corretto, fondandosi anch’essa sul sovvertimento in blocco della cultura e delle tradizioni euro-occidentali, «demoliva l’intero patrimonio storico del costituzionalismo liberale e democratico che, con grande fatica, in quasi un millennio era giunto a conciliare nel diritto e nella politica il principio dell’appartenenza comunitaria e quello dell’individuo». L’abbandono dell’universalismo maturato con il costituzionalismo e la statualità occidentale ha prodotto gravi conseguenze: esso infatti, lungi dal tradursi in un più alto livello di salvaguardia dei diritti della persona, ha reso questi ultimi assai più incerti.
La manifesta incapacità delle istituzioni internazionali e sovranazionali di fungere da nucleo razionalizzatore di fronte ai processi di globalizzazione ha causato, nel corso degli ultimi decenni, la tendenza allo sviluppo di fenomeni politico-culturali fondati sulla ricerca di un baricentro più saldo per i diritti civili e politici: da qui la nascita e l’ascesa dei movimenti cosiddetti sovranisti o neo-nazionalisti. L’intellighenzia progressista ha reagito a questo processo respingendo la concezione «civilizzazionista e/o sovranista» dell’identità, additandola come illiberale e tendenzialmente razzista, e riproponendo ostinatamente l’ideale dell’identità collettiva – o meglio, della «non identità» – come processo dinamico, legato alla contaminazione tra civiltà e culture diverse.
Nella dialettica fra il politicamente corretto e i suoi avversari si sono poi inserite le imprese digitali statunitensi che, sfruttando le loro straordinarie potenzialità di comunicazione a livello globale, hanno svolto un ruolo determinante nella trasmissione e nel costante aggiornamento della visione del mondo politicalcorrettista. Per contro, però, gli stessi strumenti ideati e adoperati dal «blocco socio-economico digitale» sono diventati anche patrimonio delle forze culturali e politiche ostili all’«impero del bene» antidiscriminatorio. Anzi, essi hanno contribuito a suscitare reazioni di insofferenza diffuse e strutturate e a compattare fronti consistenti di resistenza alla narrazione politicamente corretta, sostenuti dalle fasce sociali che, per un verso o per un altro, si sentono escluse dal globalismo verticalizzato.
Si può convenire quindi, con Capozzi, che la più grande sfida politica e culturale attualmente in corso in Occidente, di portata storica, sia quella tra le forze populiste cresciute nell’ultimo quindicennio e il sistema di potere nato dalla rivoluzione generazionale degli anni Sessanta.
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