Seo & Journalism, Google a misura dei giornalisti (o quasi)
Salvatore Russo e Giulia Bezzi spiegano come conciliare informazione e motori di ricerca in un bel manuale da prendere tuttavia con le pinze a livello deontologico: dietro l’informazione 2.0 si celano le insidie del marketing che ancora il brand journalism non riesce a filtrare…
Sì, lo sappiamo: possiamo scrivere i pezzi più belli o girare i migliori video possibili, ma se non riusciamo a scalare i motori di ricerca, è perfettamente inutile, ora che l’informazione si sta spostando quasi totalmente sulla rete.
E ha ragione Daniele Chieffi, head of digital communication and content factory di Agi nel dire che i giornalisti hanno perso «la capacità di governare il modo in cui le notizie arrivano ai lettori». Un’affermazione forte, soprattutto nel contesto in cui è inserita: la Prefazione a Seo & Journalism (Hoepli, Milano 2019) un manuale di giornalismo digitale che ha una particolarità non proprio secondaria: è scritto da due imprenditori ed esperti in comunicazione online.
Si tratta di Salvatore Russo e Giulia Bezzi, entrambi mastermind della catena di agenzie marchiate & Love.
La domanda, a questo punto, è banale: proprio due imprenditori dovevano spiegare le tecniche seo ai giornalisti? Evidentemente sì, se si considera che la cultura digitale, nata per propagare il più possibile informazioni, ha attecchito con significativo ritardo nei media, italiani in particolare.
E non è un caso che i primi a utilizzare queste tecniche siano stati i marketeer e i blogger, entrambi alter ego e rivali dei giornalisti, e che questi ultimi siano riusciti a recuperare terreno (quando ci sono riusciti) solo grazie a massicci investimenti.
È appena il caso di spiegare l’acronimo seo: sta per search engine optimization e indica tutte le tecniche per ottenere posizioni vantaggiose nei risultati dei motori di ricerca, Google in particolare. Detto altrimenti, tutto ciò che occorre sapere per poter scalare la classifica delle ricerche e posizionarsi in modo da ottenere più visualizzazioni possibili.
Un’aspirazione non dissimile da quella che ha animato i media tradizionali per anni: si pensi agli strilli delle locandine o ai titoli dei tg, che mirano ad attrarre lettori e spettatori.
Seo & Journalism è un manuale importante, perché colma una lacuna non proprio secondaria: chiarisce ai giornalisti e agli addetti ai lavori dell’informazione una serie di tecniche finora appannaggio quasi esclusivo degli operatori pubblicitari e della comunicazione. E, soprattutto, ribadisce l’importanza del linguaggio utilizzato, perché nel web, come nella vita reale, non conta solo il contenuto, ma anche come lo si confeziona. Un insegnamento dato troppo spesso per scontato o messo in secondo piano nel giornalismo tradizionale, dove ha contato troppo a lungo più la notizia in sé che il modo di porgerla, anche in conseguenza del fatto che il giornalismo tradizionale ha costruito il proprio monopolio nell’informazione sulla cosiddetta scarsità delle tecnologie, che fino a trent’anni fa si riducevano al binomio carta-etere.
Col web le cose cambiano e tutti possono fare informazione. Questa disintermediazione ha rimescolato non poco le carte con forti effetti collaterali, inevitabili nelle trasformazioni accelerate: la confusione tra informazione e comunicazione e l’esplosione delle fake news.
Come rimettere ordine? E, soprattutto, come recuperare il terreno perduto?
Parrebbe, a dar retta a Russo e Bezzi e in barba agli apocalittici alla Morozov, che la risposta stia in Google. In pratica, il colosso di Mountain Wiev, accusato di aver egemonizzato e distorto il mercato globale dell’informazione, conterrebbe gli anticorpi alle distorsioni mediatiche indotte e amplificate dalla rete. perciò, in teoria, basterebbe saperlo usare.
E qui arriva la prima buona notizia: il supermotore di ricerca ha implementato una serie di accorgimenti tecnici e forme di intelligenza artificiale tali da adeguarsi alla semantica della quasi totalità delle lingue esistenti. Detto altrimenti: niente più frasi spezzettate, pensando più ai tag che alla sintassi, niente più titoli stupidi (ma intelligentissimi per le macchine). Al contrario, per performare bene su Google occorre scrivere bene.
La seconda buona notizia riguarda proprio la tecnica di scrittura: parrebbe, sempre a prestar fede ai capataz di Google, che basti il buon vecchio stile giornalistico asciutto e che, su queste basi, a volte ci si possa concedere qualche svolazzo qui e lì senza esagerare. Stesso discorso per i titoli: Google apprezza molto sia gli strilli sia le frasi secche. E se si azzeccano una o più keyword meglio ancora.
In ogni caso, roba non molto diversa da quel che era chiesto nei vecchi giornali di carta quando erano fatti davvero bene.
Tutto questo perché la semantica del motore di ricerca è costruita su misura dell’utente medio, che è un po’ meno fantomatico (e probabilmente meno ignorante) del lettore medio di cui si favoleggiava nelle vecchie redazioni: è una persona che cerca informazioni di varia natura con una certa fretta e con l’esigenza di una certa precisione. Nessuno comprerebbe un giornale senza notizie, nessuno aprirebbe un articolo senza informazioni (o con informazioni scritte male).
Fin qui nessun problema. Anzi, Seo & Journalism è uno scrigno di notizie e dritte preziose sulla struttura e sul funzionamento di Google e mette il lettore quasi subito in condizioni di operare senza difficoltà soverchie.
Ma alle delizie, che sono molte e valgono la lettura di questo bel manuale, corrisponde qualche croce. Innanzitutto, per l’impostazione degli autori, che è più orientata al business che all’informazione: si possono davvero applicare del tutto i principi del marketing all’informazione online, che è gratuita per l’utente e si finanzia indirettamente? Ovviamente no. Quindi, confondere il lettore (o lo spettatore-ascoltatore) col buyer (compratore o fruitore di servizi che è disposto a pagare) presenta più di un rischio.
Ne è un esempio il cosiddetto brand journalism, l’ibrido di nuova generazione tra pratiche di marketing e tecniche giornalistiche. Intendiamoci: che questo filone prenda piede non è un male, perché almeno si evita di ripetere il modello Mulino Bianco all’infinito e ci si sgancia dallo story telling stucchevole da Paese dei Balocchi a cui tanto marketing ci ha abituati. Gli esempi virtuosi non mancano: al riguardo Russo e Bezzi citano il caso di McDonald’s che è riuscita a riabilitarsi da critiche dietro le quali si celavano non poche insidie industriali grazie all’uso intelligente dello story telling giornalistico.
Ma ciò non fa del brand journalism una disciplina pulita. Anzi, il rischio più forte è che in questo settore si sommino i vizi del giornalismo a quelli del marketing e si finisca col legittimare ancor di più la cosiddetta economia della truffa.
Paradossalmente, di questo rischio i due autori sono più che consapevoli, visto che dedicano il capitolo più bello di Seo & Journalism alle insidie delle fake news. In particolare, colpisce l’esempio del bombardamento mediatico negativo a cui è stato sottoposto l’olio di palma, che proprio in seguito a continui attacchi è stato eliminato dalla produzione alimentare di massa senza che vi fossero evidenze scientifiche concordanti.
Ad approfondire giusto un po’ quest’esempio, ci si accorge benissimo di due cose.
La prima: le campagne di disinformazione sono pratiche scorrette sia nel giornalismo sia nel marketing (si pensi ai tanti esempi di pubblicità comparativa più o meno dissimulata).
La seconda: è vero che la disinformazione e le fake sono esplose nella comunicazione (e quindi nell’informazione) politica. Ma è altrettanto vero che la disinformazione mirata proviene da tecniche pubblicitarie e di propaganda.
Quindi il brand journalism non è proprio una pratica al di sopra di ogni sospetto e richiede una massiccia dose di deontologia in chi la produce e capacità di decodificazione superiori a quelle richieste dal giornalismo e dal marketing normali in chi ne fruisce.
Questo ragionamento, va da sé, fila per i livelli alti. In quelli più comuni l’esperienza di molti siti web che ospitano pubblicità camuffate da articoli prodotti da agenzie spesso improbabili fa capire come il livello scenda di parecchio. Non solo a livello linguistico: si pensi ai troppi casi di pubblicità borderline a giochi d’azzardo o a prodotti farmaceutici, che difficilmente potrebbero realizzarsi al di fuori del brand journalism.
Le insidie sono dappertutto e il marketing ne è pienissimo.
Seo & Journalism resta comunque una guida preziosa, che richiede più livelli di lettura, per capire fin dove gli operatori dell’informazione possano spingersi davvero nell’adozione di tecniche di marketing. Non tanto per una questione di etica, ma per non scadere nel ridicolo come chiunque snaturi la propria matrice professionale.
Già: marketing e giornalismo sono realtà non dissimili ma meno integrabili di quel che si pensi. Stesso discorso per il seo: è vero che Google ha fatto passi da gigante per umanizzare i propri algoritmi, ma chi scrive deve farlo pensando a chi legge più che a fornire keywords alle macchine.
Stesso discorso per il debunking: l’intelligenza artificiale non è mai sostanziale né specialistica. Ed è difficile trovare algoritmi in grado di filtrare le fake news in settori delicati e non alla portata di tutti (si pensi alla presenza massiccia di improbabili revisionisti storici o, peggio ancora, alla disinformazione scientifica e finanziaria che impera indisturbata nelle paginate di Google).
Almeno per il momento è così. E non resta che attendere fiduciosi negli sviluppi futuri dell’informatica, ma con una consapevolezza minima: un algoritmo non ci salverà comunque.
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