L’omertà? Non è una piaga del Sud. I risultati di una ricerca controcorrente
Secondo il team di studiosi napoletani guidato da Isaia Sales, il fenomeno è in calo grazie alle nuove politiche di sicurezza
Sud = Mafia = Omertà: una triade perfetta, un’equazione semplice, lineare e potente che ha condizionato e tuttora condiziona il discorso pubblico sulla criminalità organizzata.
Secondo questa superficiale ma diffusissima mentalità, le mafie non sarebbero il prodotto di particolari condizioni storiche e politiche. Esse, piuttosto, nascerebbero da una sorta di predisposizione genetica dei meridionali: costituirebbero, cioè, un problema di «luogo», di «cultura», o addirittura di «etnia». Va da sé che l’omertà, intesa ora come consenso e aperto sostegno, ora come silenzio partecipe di un’intera comunità ai valori mafiosi, è stata identificata quale prova dell’assenza di soluzione di continuità tra fenomeni criminali e società civile a Sud del Garigliano.
Ma è davvero così? L’omertà è veramente in grado di spiegare le difficoltà a debellare le mafie nel Sud Italia? O la compattezza monolitica con cui l’omertà viene riproposta, ormai da un secolo, come la madre di tutti i mali del Sud nasconde qualcosa d’altro? Essa è davvero condivisione dei valori mafiosi? O è uno stereotipo che nulla dice e ancor meno spiega circa le dinamiche reali della criminalità nel Mezzogiorno e in Italia?
Queste sono le domande poste da Antonio Fisichella, ricercatore della Fondazione Giuseppe Fava, e da altri studiosi (Simona Melorio, Simona Balbi, Maria Ausilia Simonelli, Annamaria Iaccarino, Federica Guadagnini ed Emmanuele Martino) nel volume Omertà: silenzio, paura ma non condivisione. I risultati di una ricerca sul campo, edito da Guida nel dicembre del 2017. La monografia raccoglie le conclusioni di un’indagine promossa dal Centro ReS Incorrupta dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e finanziata dalla Fondazione Polis-Politiche integrate di sicurezza per le vittime innocenti della criminalità e i beni confiscati, con la responsabilità scientifica di Isaia Sales. Questi – uomo politico, pubblicista, editorialista de Il Mattino e docente di Storia delle Mafie presso la Suor Orsola Benincasa – è anche autore dell’appassionata e documentata introduzione al libro, nella quale vengono sintetizzati ed esposti in forma efficacemente divulgativa i dati emersi dalla complessa ricerca.
L’intento iniziale, spiega Sales, è stato quello di verificare se corrisponde al vero il significato che la parola omertà ha assunto nel tempo, cioè «di una generale reticenza della popolazione dell’Italia meridionale, intesa come rifiuto a collaborare con la giustizia, come diffidenza e ostilità verso le forze dell’ordine, come connivenza collettiva e oggettiva con la criminalità anche di chi non ne fa parte». Il confronto tra le risposte fornite in assoluto anonimato dalle persone intervistate e i dati Istat riguardanti il numero dei reati e le denunce degli stessi alle autorità giudiziarie ha permesso di sfatare clamorosamente alcuni luoghi comuni che continuano a pesare come un macigno nell’immaginario collettivo sul Mezzogiorno e i suoi abitanti. Nelle zone di mafia, infatti, si riesce a scoprire autori di reato come e più che in altre realtà territoriali da sempre definite «virtuose» e per molto tempo ritenute «a-mafiose».
A tale proposito Simona Melorio, coordinatrice della ricerca per conto di ReS Incorrupta, commenta che l’omertà, lungi dal non esistere, è però certamente un attributo quasi inevitabile dei mafiosi, ma non dei meridionali: «Si può dire che esiste l’omertà, si può dire che le mafie, in quanto ‘consorterie segrete’, spingano i loro associati al silenzio che provano, attraverso la paura, a imporre anche al di fuori dell’associazione criminale, nel tessuto sociale viciniore, ma non si può dire certo che l’omertà, in quanto caratteristica intrinseca di una intera popolazione, paralizza la società civile».
D’altra parte, fa notare Sales, fino alle soglie degli anni Ottanta del Novecento il 99% dei processi ai mafiosi si risolvevano con il proscioglimento dei capi e con leggere condanne per i subalterni. Quasi sempre la formula giuridica impiegata era l’assoluzione per mancanza di prove: ed era appunto la mancanza di prove a dimostrare concretamente il potere di influenza dei mafiosi. La capacità di intimidazione delle cosche si manifestava anche nella spietata efficienza da esse dimostrata allorché si trattava di eliminare coloro che potevano nuocere, del tutto sproporzionata rispetto alla limitata capacità dello Stato di proteggere i potenziali testimoni.
La scelta del silenzio, dunque, non era e non è dettata da una presunta adesione a un codice d’onore, né è possibile attribuire a essa il significato di una condivisione dei valori mafiosi: è piuttosto il frutto amaro di un comportamento razionale in rapporto alle conseguenze nel caso si collabori con le forze dell’ordine.
«È del tutto evidente» conclude Sales «che se la violenza fosse stata stabilmente punita, non ci sarebbero state le mafie».
Negli ultimi decenni, peraltro, si è registrata una significativa inversione di tendenza: quando le istituzioni hanno realmente incoraggiato la collaborazione dei cittadini contro il crimine organizzato, i risultati sono arrivati. Fino a pochi anni fa, nessuno avrebbe potuto immaginare che i parenti delle vittime di mafia si sarebbero mobilitati in modo permanente, al punto da rappresentare uno stimolo quotidiano nella lotta contro i mafiosi, né che sulle mura di Palermo sarebbero comparsi manifesti con queste parole: «Un popolo che paga il pizzo non ha onore».
La società civile meridionale, dunque, ha ampiamente dimostrato di possedere nel proprio patrimonio morale quel «dovere di non aver paura» che Leonardo Sciascia poneva tra i fondamenti della sua «fede socratica» nella ragione, come ricorda Maria Ausilia Simonelli nel bel saggio finale dedicato al grande scrittore siciliano.
Lorenzo Terzi
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