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Soldati e massacri: gli svarioni di Gigi Di Fiore

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Il giornalista napoletano è forse l’autore più credibile nel filone del cosiddetto “revisionismo” antirisorgimentale. Tuttavia, la sua produzione non è esente da svarioni e forzature, come dimostra una lettura attenta delle parti dedicate alla strage di Pontelandolfo. Ve ne proponiamo una piccola carrellata

Niente di personale nei confronti di Gigi Di Fiore, bravissimo inviato de Il Mattino dotato di grande lucidità e di un’eleganza stilistica che è diventata merce rara (e preziosa) nel giornalismo contemporaneo.

Non a caso, il giornalista napoletano risulta il più credibile tra i cosiddetti revisionisti antirisorgimentali: non eccede mai nel linguaggio, soprattutto, quando può, usa documenti originali e rivela una certa confidenza con gli archivi.

Al centro nella foto, il giornalista Gigi Di Fiore

Rispetto ad altri classici di questo bizzarro filone, i libri di Di Fiore sono godibili, scritti in maniera gradevole e privi degli eccessi linguistici che, ad esempio, caratterizzano Terroni (2009) e Carnefici (2016), i best seller di Pino Aprile, rispetto al quale il Nostro risulta molto più preciso e assai meno enfatico.

Certo, la sua lettura del brigantaggio come lotta contadina è decisamente vecchiotta, debitrice com’è di Gramsci, magari mediato dall’interpretazione e applicazione fattane da Franco Molfese nel suo Il brigantaggio dopo l’unità, un classicone in materia, sul quale tuttavia pesa un bel po’ di polvere.

Antonio Gramsci

Ma non è il caso di addentrarsi in questioni metodologiche. Semmai, è opportuno evidenziare alcuni svarioni storici, alcune contraddizioni non leggerissime e qualche furbata di Di Fiore, giusto per capire e far capire che una cosa è ammirare la bravura, che nel suo caso c’è ed è tanta, un’altra è prendere per oro colato tutto ciò che fanno quelli bravi.

La tesi di laurea su Pontelandolfo

Iniziamo con la furbata. A pagina 306 (citiamo dell’edizione in e book) del suo La nazione napoletana (Utet, Torino 2015) Di Fiore cita la tesi di laurea discussa a Salerno dal beneventano Gaetano Ferrara con tanto di 110 e lode nell’anno accademico 2012-13 su Eccidio di Pontelandolfo e Casalduni-I fatti e la memoria.

La tesi di laurea di Gaetano Ferrara

Nella tesi, il laureando (non così giovane, almeno a giudicare dalle foto del suo profilo Facebook, da cui si apprende che è titolare di un’attività informatica a Benevento) sostiene un po’ l’indirizzo neoborb sulla vicenda di Pontelandolfo. In particolare, Di Fiore riporta alcuni stralci di un’intervista fatta dall’ex studente di Salerno ad Antimo Albini, presidente dell’Archeoclub di Pontelandolfo. Le dichiarazioni di quest’ultimo riguardano gli archivi parrocchiali del paese beneventano e sono piuttosto insidiose: parrebbe che il parroco dell’epoca non abbia registrato tutti i decessi del terribile 14 agosto 1861,

Il sottinteso non è poi così sottile: si tenta di confutare la ricerca compiuta dallo studioso (e religioso) padre Davide Fernando Panella, che tra l’altro Di Fiore non menziona nel libro, secondo il quale i morti nell’incendio di Pontelandolfo sarebbero stati 13. Il tutto serve a rilanciare la tesi revisionista secondo la quale, i morti sarebbero stati centinaia. Cosa affermata anche dal giornalista. È opportuno tenerla a mente perché tornerà utile più avanti.

Il “revisionista” Antonio Ciano

Ma concentriamoci sulla furbata, che esce fuori non appena si scorre la bibliografia della tesi, che si basa su fonti indirette, cioè opere scritte da altri, e su interviste. Tra i testi citati nella bibliografia figurano – oltre ai classici pinapriliani e a I Savoia e il massacro del Sud del protorevisionista Antonio Ciano – tre libri di Di Fiore: 1861 Pontelandolfo e Casalduni. Un massacro dimenticato, I vinti del Risorgimento e Controstoria dell’Unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento.

Una vera e propria partita di giro intellettuale: Di Fiore cita una tesi in cui viene citato e che, partendo dai suoi libri, conferma le sue tesi. L’oste dice che il vino e buono, forse perché ha fornito anche l’uva al produttore.

Il telegramma di Cialdini

È il momento del primo svarione, che potrebbe anche essere il frutto di un’altra furbata. Cioè la citazione del famoso telegramma inviato dal generale Enrico Cialdini al tenente colonnello Pier Eleonoro Negri, uno dei due comandanti (l’altro fu il maggiore Carlo Melegari) della spedizione a Pontelandolfo e Casalduni.

Questo telegramma, anche in seguito alla pubblicazione del recente volumetto dedicato da Giancristiano Desiderio agli avvenimenti del Beneventano (Pontelandolfo 1861. Tutta un’altra storia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019) è diventato il pomo della discordia tra quelli che sostengono che l’ordine di marciare su Pontelandolfo fosse stato impartito per rappresaglia e coloro che, invece, sono convinti che fosse solo imposto dalla necessità di riportare l’ordine e la sicurezza nel Sannio.

La copertina di Pontelandolfo 1861

Al riguardo, è decisivo l’orario d’invio del famigerato telegramma: le 11 del mattino del 10 agosto 1861. Cioè più di ventiquattro ore prima che la colonna guidata dal tenente Cesare Augusto Bracci venisse massacrata a Casalduni.

Perciò il telegramma si riferisce chiaramente ai fatti del 7 agosto 1861, cioè ai disordini provocati a Pontelandolfo dalla banda di Cosimo Giordano, che prese il controllo del paese e provocò quattro morti e non alla morte dei soldati di Bracci.

La rappresaglia si riferisce ai rapporti tra corpi di uomini armati, militari e assimilati. Si potrebbe usare solo se la si riferisse alla vicende dell11 agosto e si sostenesse, quindi, che Negri e Melegari fossero andati a Pontelandolfo e Casalduni per vendicare i loro commilitoni.

È del tutto inapplicabile, invece, ai fatti del 7 agosto.

Il generale Enrico Cialdini

Come si comporta Di Fiore nei confronti del telegramma? In I vinti del Risorgimento (Utet, Torino 2012) si limita a menzionarlo senza ulteriori commenti. Invece in Controstoria dell’Unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento (citiamo dall’edizione Grunner+Jahr-Mondadori, Milano 2012, allegata alla rivista Focus) c’è una rottura interpretativa: il telegramma è riportato nella corretta datazione, ma l’ordine viene riferito ai fatti dell’11 agosto, giusto per confermare la tesi della rappresaglia (e quest’ambiguità è piuttosto evidente nelle pagine 253-254 del libro).

Stesso discorso in Briganti! (Utet, Torino 2018): il telegramma di Cialdini non è praticamente menzionato, forse perché Di Fiore preferisce concentrarsi sui contenuti dell’ordine del generale. Già: decontestualizzato dalla data d’invio, l’ordine sembra di rappresaglia, se invece lo si contestualizza, le cose cambiano.

La copertina di Briganti!

Eppure questa tesi, rilanciata di recente da Ugo Simeone e Giancristiano Desiderio, non è affatto nuova: risale ad Alfredo Zazo, che l’aveva elaborata sin dagli anni ’50 del ’900. Di solito molto scrupoloso nell’uso delle fonti e nelle citazioni bibliografiche, Di Fiore menziona Zazo nella bibliografia della Controstoria e in quella di Briganti!, dov’è citato anche Simeone. Delle due l’una: o non li ha davvero letti, il che è da escludersi, o ha forzato l’interpretazione.

Iacobelli l’“infame”

Un discorso simile lo si potrebbe fare riguardo ad Achille Iacobelli, considerato una specie di Gattopardo e voltagabbana in Briganti!: Di Fiore insiste sui rapporti inviati da Iacobelli (ricco possidente di San Lupo, passato senza colpo ferire dalle simpatie borboniche al liberalismo) al comando di Napoli affinché Pontelandolfo fosse distrutta. In realtà, come prova Simeone nel suo saggio biografico dedicato al ricco cavaliere (pubblicato nel 2010 e riedito nel 2018), Iacobelli fu a Napoli dal 6 al 10 agosto 1861. Perciò non poté essere testimone oculare dei fatti del 7 agosto, che apprese de relato. Inoltre, sempre secondo Simeone, il notabile sannita non avrebbe mai inoltrato missive al comando di Napoli perché tra lui e lo stato maggiore di Cialdini non c’erano rapporti diretti, che esistevano solo con l’intendente della Guardia Nazionale di Cerreto Sannita.  Era proprio il caso di insistere sul cavaliere di San Lupo, quando il testo più aggiornato, cioè quello di Simeone, ne limita ruolo e responsabilità senza alcuna contestazione in sede storiografica?

La strana lettera di Cosimo Giordano

Altro svarione o, se si preferisce, altra forzatura, che riguarda la lettera scritta nel 1884 da Cosimo Giordano al presidente del Tribunale che lo processava per i fatti di Pontelandolfo.

Nella missiva, l’ex capobrigante ammette un dettaglio non secondario nella vicenda di Pontelandoldo: di essere a conoscenza dell’arrivo di truppe (quelle comandate da Melegari) e di aver tentato di preparare loro una trappola a Casalduni, che infatti era stato evacuato. La trappola fu vanificata dall’arrivo dei soldati di Negri.

La copertina de La nazione napoletana

Questa tesi, avanzata da Simeone e ripresa da Desiderio (che parla nel suo libro di modello Simeone) smonta del tutto l’ipotesi della rappresaglia ordinata a Negri e rafforza la tesi opposta, secondo cui Negri avrebbe ricevuto solo l’ordine di riportare l’ordine a Pontelandolfo, ma lo avrebbe ricevuto in ritardo, cioè la sera del 13 agosto, perché era impegnato in altre operazioni nel Sannio. Quindi l’arrivo della sua colonna fu sarebbe stato del tutto casuale, a differenza dell’arrivo della colonna di Melegari, che era stata inviata per sostituire quella ritardataria del tenente colonnello.

Riguardo alla lettera di Giordano, Di Fiore si limita a sminuirne il valore, attribuendola più alla strategia difensiva degli avvocati che alla memoria dell’imputato (così nelle pagine 144 e 145 dell’edizione in e book di Briganti!) .

Il problema, in questo caso, non è l’autenticità della lettera, ma la sua esistenza. Sui fatti del 14 agosto, infatti, la dichiarazione firmata (spontanea o meno, non importa) non alleggerisce ma anzi aggrava la posizione di Giordano, che tenta di alleggerirsi solo in rapporto al massacro dei soldati di Bracci, di cui scarica la responsabilità sugli abitanti e sui contadini dei due paesi.

Ora, la lettera esiste ed è firmata da Giordano, che fa delle ammissioni. Occorrerebbe provare la falsità di queste ammissioni e non limitarsi, come invece fa Di Fiore, a contestarne l’autenticità sulla base del fatto che la lettera fosse ispirata dagli avvocati.

La polemica sui morti

L’ultimo svarione (ma sarebbe il caso di dire furbata) è contenuto in un articolo ospitato dal Corriere del Mezzogiorno del 4 gennaio 2019, intitolato Pontelandolfo fu «punito».

Dell’articolo, con cui Di Fiore replica a Desiderio, colpisce un passaggio: «Un paese venne raso al suolo, i morti furono decine (mai parlato di migliaia)».

Forse di migliaia no. Ma di centinaia sì. Già: Di Fiore ha parlato di decine di morti solo nella Controstoria, il testo più vecchio tra quelli esaminati, dove dichiara sessantaquattro decessi tra i civili. E in effetti siamo nell’ordine delle decine, perché. Secondo i criteri della demografia non c’è quella gran differenza tra i tredici morti censiti da padre Panella e i sessantaquattro raccontati dal Di Fiore prima maniera, che tuttavia non menziona neppure di striscio gli studi del religioso beneventano.

La copertina de I vinti del Risorgimento

Le cose cambiano quando si passa da un ordine di grandezza a un altro. Capita, ad esempio, in La nazione napoletana, dove, precisamente nell’appendice L’eccidio di Pontelandolfo, nuove verità, Di Fiore cerca di accreditare l’idea che i morti siano superiori ai 164 indicati dai giornali dell’epoca.

Di Fiore azzarda, per Pontelandolfo, un numero forte di abitanti, circa 7.000 e poi parla di un calo «impressionante» della popolazione, che tuttavia non viene quantificato.

La demografia e la statistica non sarebbero proprio a favore di questo modo di procedere, non fosse altro perché il censimento precedente a quello del 1861 era stato fatto dall’amministrazione duosiciliana, che utilizzava criteri diversi per le rilevazioni e quindi forniva dati qualitativamente diversi rispetto ai metodi successivi. Dai quali, invece, risulta un’impennata della popolazione, che – anche a dispetto delle ondate migratorie – supera i 7mila abitanti nel 1871.

Intendiamoci: di questi ostacoli statistici è consapevole anche padre Panella, che per dimostrare il suo assunto parte dagli unici dati certi, cioè quelli dell’archivio parrocchiale, esaminato più volte, e li compara con i registri anagrafici del Comune, per dimostrare che a Pontelandolfo non vi furono né il calo drastico della popolazione né il suo mutamento (magari dovuto a immigrazioni agevolate o coatte): due cose che si sono verificate spesso in seguito a eventi traumatici come pogrom o sterminii.

La copertina di Controstoria dell’Unità d’Italia

Sorge il sospetto che la non menzione di Panella non sia dovuta al rispetto verso il religioso ma al fatto che i suoi metodi costituiscono un ostacolo invalicabile per chi vagheggia stermini o prove tecniche di genocidio.

A meno che non si voglia sottendere altro: ossia, che i militari non abbiano provveduto a riempire i vuoti demografici a suon di stupri.

Per concludere…

È necessario un ultimo chiarimento, che si riferisce al linguaggio truce usato dai militari dell’epoca, a partire da Cialdini: una cosa è l’aspetto psicologico con cui certi ordini furono impartiti e recepiti, un’altra è il loro peso giuridico.

Cialdini non ordinò mai rappresaglie né punizioni, ma semplicemente la riconquista di un territorio sottratto allo Stato. E, al netto del gergo, è difficile dimostrare che non fosse così.

Ma tant’è, quando un fatto tragico tracima nella leggenda e questa leggenda diventa anche nera, la tentazione di sovrapporre il moralismo, cioè l’ansia di cercare un colpevole da condannare a tutti i costi, alla morale, che per gli storici deve consistere solo nella ricerca della verità, è fortissima. Anche per chi, come Di Fiore, ha dato prove brillanti di giornalismo. Che, nel caso delle sue opere revisioniste, si riducono a poco più di eccellenti (e rare) capacità di scrittura.

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

Comments

There are 2 comments for this article
  1. Egregio Saverio,
    non serve ripetere l’intervento due volte: leggo comunque e, se del caso e appena posso, rispondo. Come, appunto, faccio ora.
    Per prima cosa, mi permetto di suggerirLe di evitare due trappole, tipiche degli “amatori” della Storia: la tifoserie e il “fatterello”.
    Nel caso di Di Fiore, ma anche di Giancristiano Desidedio e di Carmine Pinto, è una questione di impianto storiografico più generale. Che si risolve in una domanda: al Sud ci fu un massacro indiscriminato ai limiti del genocidio o no? Nessuno dei tre autori, incluso Di Fiore che resta una spanna sopra gli altri “revisionisti” e si conferma come uno dei rari casi di giornalista in grado di dialogare da pari con gli accademici, la risposta è no. Anche se i morti di Pontelandolfo fossero stati oltre il centinaio.
    Ora, non serve appellarsi a quel che scrive Pinto, che a livello numerico è più vicino al “riduzionista” padre Panella che alle iperboli di Aprile. Serve, semmai, ragionare sul concetto di rappresaglia.
    La rappresaglia non è un concetto morale, simile a “vendetta”, ma un concetto giuridico molto praticato nel vecchio diritto internazionale bellico.
    Ora, Desiderio sostiene con dei dati più che apprezzabili, che a Pontelandolfo e Casalduni non vi sia stata alcuna rappresaglia ma solo operazioni di messa in sicurezza di quei territori. Pinto, invece, concede l’ipotesi della rappresaglia.
    Nel mio piccolo – e, al riguardo, rinvio alla mia recensione del pamphlet di Desiderio – considero la questione della rappresaglia un falso problema: se anche fosse stata rappresaglia, non sarebbe quel gran male, perché la rappresaglia era legittima.
    Ciò che conta, invece, è che il Regio Esercito non abbia approfittato della rappresaglia per infierire sadicamente sulle popolazioni. E questo dato si desume sia dal basso numero di morti civili sia dal fatto che, meno di una generazione dopo, i due paesi beneventani abbiano ripreso a crescere con un impeto che solo la grande emigrazione iniziata a fine ‘800 avrebbe frenato.
    Contano i fatti e, certo, le loro interpretazioni, quando sono autorevoli. Il resto, anche la citazione di un ottimo storico come Pinto sganciata dal contesto del libro, è fuffa.
    Cordialmente,
    Saverio Paletta

  2. Peccato che anche un docente illustre come Carmine Pinto dell’Università di Salerno, nel suo ultimo libro per Laterza recensito da Desiderio, parli con chiarezza di reppresaglia e ha perplessità sui morti. Eccone il passaggio: “Altri due reparti di bersaglieri e volontari, su ordine espresso di Cialdini, fecero una rappresaglia a Pontelandolfo e Casalduni, ma i briganti riuscirono a sganciarsi. I paesi furono comunque presi. A Pontelandolfo i dati disponibili parlano di meno di una quindicina di vittime tra i civili (non si escludono però altri morti, non registrati) e dell’incendio di parte del paese”
    (Carmine Pinto, La guerra per il Mezzogiorno, 2019, p. 133)

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