I neoborbonici contro la storica: una sfida impossibile
Gennaro De Crescenzo contesta in un suo libro le ricerche di Renata De Lorenzo, storica di punta della Federico II di Napoli e presidente della Società Napoletana di Storia Patria. Ma a un’attenta lettura le critiche dello scrittore “revisionista” appaiono inconsistenti e faziose, ben al di sotto dei requisiti minimi della storiografia
1. “Borbonia felix. Il regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo” della storica Renata De Lorenzo
In quest’articolo esamineremo alcune contestazioni rivolte ad uno studio storico della professoressa Renata De Lorenzo, Borbonia felix. Il regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo (Roma, Salerno 2013), e si mostrerà l’infondatezza delle critiche rivolte alla studiosa.
Come premessa presenteremo in breve la figura di questa studiosa ed i contenuti del suo saggio. Senza possibilità di dubbio, la professoressa Renata De Lorenzo è fra i maggiori storici del Risorgimento e non ci riferiamo solo a quelli in attività. Un breve riassunto dello straordinario curriculum vitae di questa ricercatrice permette di avere un’idea del suo livello intellettuale e professionale.
Laureatasi in Lettere presso l’Università degli Studi di Napoli con 110 e lode, ha svolto attività di addetta alle esercitazioni, di contrattista e di ricercatore, prima di diventare professore associato, quindi (dal 2000) professore ordinario all’università partenopea. Inoltre dal maggio 2010 la professoressa De Lorenzo è presidente della Società Napoletana di Storia Patria, di cui tra l’altro sin dal 1998 faceva parte come membro del comitato direttivo, tesoriere e direttrice della biblioteca.
La professoressa De Lorenzo è divenuta nel 1995 presidente del Comitato napoletano dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, di cui ha diretto la collana delle pubblicazioni.
È stata componente del corpo docente del Corso di perfezionamento in Saperi storici e nuove tecnologie dell’Università di Napoli Federico II (anni accademici 1999-2000, 2000-2001, 2001-2002, 2002-2003, 2003-2004).
Renata De Lorenzo inoltre dirige dal 2010 il prestigioso Archivio storico per le province napoletane. Inoltre, ha fatto parte del corpo docente del Dottorato in Storia della Società europea della Federico II, del Centro interdipartimentale di Studi di Storia comparata delle società rurali in età contemporanea del medesimo ateneo, del comitato scientifico della Rivista italiana di studi napoleonici e del comitato di redazione di Napoli nobilissima, nonché dal 2012 del consiglio di presidenza dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano e dal 2007 della giunta del Dipartimento di Discipline storiche.
Dal 1997 è socia dell’Accademia pontaniana di Napoli e dal gennaio 2001 della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli. Dal novembre 2004 all’ottobre 2007 è stata direttrice del Dipartimento di Discipline storiche della Federico II. È autrice di una consistentissima bibliografia, che comprende decine e decine e decine di studi, fra monografie, saggi, articoli in opere miscellanee etc.
Borbonia felix. Il regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, è un eccellente esempio di storia sociale e culturale, che si avvicina per prospettiva d’indagine allo studio di Rosario Romeo sul passaggio nella mentalità collettiva dal patriottismo siciliano al patriottismo italiano in Sicilia (R, Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari, Laterza 1950), oppure ai pioneristici studi di Benedetto Croce: Il romanticismo legittimistico e la caduta del regno di Napoli o Gli ultimi borbonici, successivamente riuniti in Uomini e cose della vecchia Italia (Bari, Laterza 1927. Il Croce aveva fatto in tempo a conoscere ancora l’anziano duca di Maddaloni).
Fra le qualità di Borbonia Felix spicca la capacità di coniugare armoniosamente una molteplicità di metodologie di diverse discipline.
La professoressa esamina le procedure di costruzione del consenso e dell’immagine pubblica in uno stato ancora d’Antico Regime come il Regno delle Due Sicilie, per poi passare alle cause della loro crisi crescente: il tramonto della legittimazione dinastica; il contrasto fra Mezzogiorno continentale e Sicilia; l’ambigua relazione con la Chiesa; l’affermarsi di una opinione pubblica aristocratica e borghese d’idee liberali e patriottiche in senso italiano.
Questo studio ha per suo fulcro i meccanismi di formazione dell’identità politica nel Mezzogiorno dalla Restaurazione sino all’Unità, con la competizione fra diverse ideologie, programmi e forme d’appartenenza (legittimisti, liberali, democratici, unitari, federalisti ecc.), la concezione e la rappresentazione di sé della monarchia dei Borboni di Napoli contrapposta all’elaborazione dottrinale ed alla propaganda dei liberali loro oppositori. Esso analizza gli anni dal 1815 al 1861 per portare alla luce su quali principi si reggesse il consenso nei confronti del regime borbonico e da quali fattori essi vengano messi in crisi, sino al collasso finale del sistema politico. Anche l’indagine sulle radici della nostalgia del piccolo mondo antico nell’Italia postunitaria si basa principalmente sulle cause psicologiche e simboliche, anche sull’indagine di come i nostalgici del regime borbonico abbiano ricostruito artatamente ed a posteriori una loro immagine del regno, ricorrendo agli strumenti della retorica.
È un testo che può essere di problematica comprensione a chi non abbia dimestichezza con la storiografia universitaria e con la storia socioculturale, in ragione della sua complessità e raffinatezza, dunque rivolto anzitutto ad un pubblico di specialisti. Esso è di notevole interesse per l’originalità del suo approccio metodologico alla caduta del regno delle Due Sicilie, che è indagata attraverso i mutamenti della forma mentis e del pensiero e della loro elaborazione e costruzione sociali ed istituzionali. Non è un saggio di storia economica o militare, neppure, strettamente parlando, di politica evenemenziale, ma rientra piuttosto nel fortunato filone della storia culturale e della mentalità.
2. Un saggio incontestato, sebbene si sia cercato di farlo
Questo ottimo studio storico è stato criticato da Gennaro De Crescenzo, presidente del Movimento Neoborbonico, con argomentazioni oggettivamente discutibili. Difatti questi nella sua pubblicazione Il sud. Dalla Borbonia felix al carcere di Fenestrelle (Milano, Magenes 2014) ha cercato di contestare la ricerca della professoressa, richiamandola diverse volte nel suo testo. Tuttavia il grosso delle obiezioni di questo signore è viziato alla base da un errore radicale: De Crescenzo replica a ciò che De Lorenzo non ha scritto.
Come si è sopra detto, Borbonia Felix si concentra sulla storia culturale e sociale, in particolare sulla dicotomia fra fedeltà ed ideologie legate all’universo dell’Antico Regime e quelle invece connesse al patriottismo ottocentesco ed alle istituzioni rappresentative. I temi di storia economica oppure questioni quali il brigantaggio preunitario e postunitario sono marginali nella ricostruzione di De Lorenzo, non perché la studiosa ne disconosca la rilevanza storica in termini assoluti, ma semplicemente perché la sua ricerca si focalizza su altri soggetti. Come avviene in qualsiasi disciplina scientifica – sia delle scienze umane, sia delle scienze naturali e matematiche – una selezione dell’ambito d’indagine affrontato in un singolo studio risulta necessaria. La storia è materia di sterminata vastità e d’alta complessità, che si differenzia non solo spazialmente e cronologicamente, ma anche per aree settoriali come la storiografia politica, economica, sociale, militare, religiosa etc., nonché per interpretazione e metodologia. Basti ricordare che esistono moltissime ed anche corpose biografie, quindi libri scritti sulla vicenda di una sola persona, oppure intere monografie su di un singolo episodio storico.
Invece di esaminare quanto la professoressa De Lorenzo, con dovizia di documenti e finezza metodologica, scrive sulla storia della mentalità e della cultura politica nel Mezzogiorno dal 1799 sino ai primi anni postunitari, De Crescenzo tenta di confutarne i contenuti accennando in ordine sparso e fuggevolmente a temi di tutt’altro tipo. Per dare un’idea del materiale de Il Sud. Dalla Borbonia Felix al Carcere di Fenestrelle occorre ricordare che il presidente del Movimento Neoborbonico, in successione, spende alcune righe o qualche paragrafo su: la collocazione internazionale delle Due Sicilie; i calcoli di Daniele e Malanima sul Pil italiano preunitario; la crescita demografica; il brigantaggio; la rivolta del Cilento; le esecuzioni capitali; l’analfabetismo e l’istruzione; le ferrovie; la legge Pica; i fatti di Pontelandolfo nell’agosto del 1861; alcune stime statistiche sul brigantaggio postunitario; i garibaldini; la camorra; l’emigrazione; le industrie; il calo delle nascite avvenuto nell’Italia contemporanea («nel 2012 al Sud i morti hanno superato i nati»); la massoneria; le dichiarazioni di Gladstone; un libro dei giornalisti Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, Se muore il Sud, che parla dell’Italia del XXI secolo; la Lega nord; i politici De Mita, Gava, Napolitano e Bassolino etc.
Questo elenco, incompleto, dei temi di volta in volta riportati nella prima parte del libro di De Crescenzo potrebbe dare un’idea della loro frammentarietà, trattandosi di una successione di soggetti diversi e slegati tra di loro, e della loro saltuarietà, poiché in poco più di cinquanta pagine si toccano fuggevolmente una pluralità di materie su cui si sono scritte numerose ed accuratissime monografie. Ma a parte ciò, quale pertinenza avrebbe tutto questo con le tematiche analizzate in Borbonia Felix? Poco o nulla. La teoria di De Lorenzo, costruita su una struttura ordinata e lineare, che ha il suo nucleo nel contrasto fra due forme d’appartenenza politica e di convinzioni ideali, permane del tutto intangibile a queste divagazioni di De Crescenzo, condotte saltellando di qua e di là.
Curiosamente, il presidente del Movimento Neoborbonico evita invece di confrontarsi con quanto De Lorenzo asserisce nella sua spassionata analisi delle figure storiche dei sovrani della casa Borbone di Napoli e sulla crisi di consenso di questo regime politico. La storica espone un rapido ma incisivo ritratto di famiglia dei sovrani borbonici sul trono partenopeo, mostrando come le loro personalità incidessero sul funzionamento dello Stato e sul consenso dei sudditi, effetto inevitabile in un ordinamento di monarchia assoluta. De Lorenzo mostra equilibrio ed imparzialità, spiegando in maniera argomentata quali fossero i pregi ed i difetti (come capi di Stato, perché altri aspetti non hanno qui rilevanza in sede di analisi storica) che avevano, concludendo però che la dinastia passata alla storia come quella dei re lazzaroni avesse finito con l’accumulare una crescente sfiducia nella popolazione. In generale la crisi fatale del reame borbonico dovuta all’erosione del consenso interno verso le sue istituzioni politiche è quasi completamente trascurata da De Crescenzo, sebbene essa sia il filo rosso che attraversa l’intera opera dell’illustre studiosa partenopea a cui egli vorrebbe replicare.
[NB: la materia studiata da De Lorenzo in Borbonia Felix è stata esaminata anche da numerosi altri studiosi, anche se con impostazioni ed assi interpretativi di altro tipo. Senza alcuna pretesa esaustiva, si possono citare: Giuseppe Galasso, Unificazione italiana e tradizione meridionale, in Archivio Storico per le Province Napoletane, XXI, CI, 1983, pp. 1-15; Aurelio Musi, Alle origini di una nazione: antispagnolismo e identità italiana, Milano 2003; Idem, La nazione napoletana prima della nazione italiana, in Angela De Benedictis, Irene Fosi, Lucia Mannori Nazioni d’Italia. Identità politiche e appartenenze regionali fra Settecento e Ottocento, Roma, Viella 2012, pp. 75-90; Giuseppe Galasso, Storia del Regno di Napoli (1266-1860), 6 volumi, Torino, Utet, 2007-2012; Maria Pia Casalena (a cura di), Antirisorgimento. Appropriazioni, critiche, delegittimazioni, Bologna, Pendragon 2013, A. Musi, Mito e realtà della nazione napoletana, Napoli, Guida 2016]
Altrettanto discutibile è la descrizione che il presidente del Movimento Neoborbonico fa della sottile e dotta ricostruzione di De Lorenzo della dialettica fra politici ed intellettuali borbonici e liberali. De Crescenzo dedica soltanto frettolosi cenni a questo punto nodale di Borbonia Felix e s’affanna a puntellare la nozione secondo cui l’opinione dei legittimisti sarebbe sempre stata trascurata, dal 1861 sino al XXI secolo, con un’emarginazione che si rintraccerebbe anche nel saggio della storica. Egli scrive: «Giacinto de’ Sivo che, con le fatiche di una vita, aveva elaborato un testo sul regno delle Due Sicilie non è riuscito a stampare il libro che aveva scritto nemmeno a proprie spese. Il tipografo si era spaventato per alcuni giudizi contro corrente» (De Crescenzo, Il sud, cit., p. 9). A parte il fatto che il de’ Sivo fu oggetto di durissime critiche persino da parte di altri borbonici (Carmine Pinto, La guerra del ricordo. Nazione italiana e patria napoletana nella memorialistica meridionale (1860-1903), in Storica, n. 54, 2012, p. 55), non è vero che non riuscì a stampare il suo libro sul reame borbonico, poiché il suo Storia delle Due Sicilie, in cinque volumi, fu stampato fra il 1863 ed il 1867 a Roma, Trieste, Verona e Viterbo. Il de’ Sivo, inoltre, faceva parte della commissione per la stampa, cioè l’organo di propaganda, creato da Francesco II di Borbone. De Crescenzo tenta di sostenere che in Borbonia Felix non sarebbe concesso spazio al pensiero dei legittimisti borbonici ottocenteschi, mentre si parlerebbe a lungo di famiglie liberali come i Poerio (De Crescenzo, Il sud, cit.,p. 19), ma neppure questo risulta esatto, poiché la professoressa De Lorenzo riserva ampia attenzione anche ai seguaci dei Borboni, ad esempio concedendo un intero capitolo alla famiglia Calà-Ulloa. (De Lorenzo, Borbonia felix, cit., pp. 74-85].
Addirittura De Crescenzo equivoca completamente quanto la professoressa De Lorenzo scrive sui funerali di Ferdinando II, poiché dichiara quanto segue: «Decisamente letterari e socio-antropologici anche i giudizi relativi ai funerali di Ferdinando II. […] manca una visione diacronica con l’analisi dei funerali dei re morti prima di Ferdinando II, con l’evidente coerenza di tradizioni e rituali profondamente cattolici […] nel funerale di un re che era semplicemente molto amato dalla sua famiglia e dalla sua gente» (De Crescenzo, Il sud, cit., p. 54). Contrariamente a quanto afferma costui, la storica invece riconosce esplicitamente sia la popolarità del defunto sovrano, sia la connotazione nettamente cattolica dell’insieme dei cerimoniali che accompagnano la sua morte, ispirati ad un modello di monarchia di Antico Regime. La finissima disanima di questa studiosa è in questo apertamente ispirata al celebre I due corpi del re di Ernst Kantorowicz. Lo studioso tedesco indaga la concezione appunto dei due corpi del re nel primo Rinascimento, distinguendo fra il corpo naturale, destinato a deperire ed a scomparire, ed il corpo politico, destinato invece a permanere. Questa discriminazione fra i due corpi è funzionale, secondo Kantorowicz, per rappresentare simbolicamente e giuridicamente il carattere perpetuo dello Stato moderno, discernendo fra ciò che è transitorio e ciò che invece è storicamente. imperituro.Si ottiene in tal modo quel che Kantorowicz definisce una «rappresentazione dell’Immutabile attraverso il Tempo».
[Kantorowicz I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, (ed.or. Princeton 1957) Torino 1989, citazione a p. 8. La liturgia reale risale nella sua origine sino al Vicino Oriente antico ed aveva raggiunto un’elevata complessità simbolica già nella Tarda Antichità. Nella vastissima bibliografia sul tema si può citare l’importante S. G. MacCormack, Art and Ceremony in Late Antiquity, University of California Press, 1981].
Il funerale del Re Bomba diviene pertanto agli occhi di numerosi osservatori coevi, anche per le differenti personalità dell’estinto e del figlio ed erede Francesco II dal carattere più debole, come un presagio della fine della dinastia (De Lorenzo, Borbonia felix, cit., pp. 106-112). La professoressa pertanto ravvisa certamente il contenuto simbolico delle cerimonie funerarie per il trapasso di re Ferdinando II ed ammette che godeva di una certa popolarità, ma non si ferma qui e sviluppa un’analisi sottile su come a questa forma di propaganda si contrapponga un’altra di segno opposto ed ispirata invece all’idea di nazione italiana, destinata poi ad avere successo.
Sostanzialmente, De Crescenzo rifugge dal confronto con le argomentazioni di De Lorenzo, limitandosi in prevalenza a divagare con brevi toccate su di una varietà di soggetti e materie estranee al saggio della storica od al massimo oggetto di un’attenzione incidentale.
3. La storiografia non è polemica
Ricorrono inoltre con relativa frequenza nel testo di De Crescenzo accenni polemici, che sono fuori luogo in quello che sarebbe secondo le intenzioni dell’autore un libro di storia.
Esempio davvero paradigmatico del suo atteggiamento verso la storica De Lorenzo è quando egli afferma: «Murat viene definito addirittura “il bel Gioacchino Murat” dall’autrice, forse non insensibile al “fascino” del cognato di Napoleone ma noi preferiamo sottrarci a giudizi estetici sul condottiero “raccomandato” dal potente fratello della moglie (in seguito si censurerà il “familismo” borbonico) e amante dei grandi cappelli piumati» (De Crescenzo, Il sud, cit.,p. 24].
L’osservazione della professoressa sull’aspetto fisico di Murat, ritenuto un bell’uomo sulla base dei canoni estetici suoi contemporanei e che sarebbe probabilmente giudicato tale ancora tutt’oggi, non è l’espressione di una ipotetica sua sensibilità al fascino di questo generale, bensì un riferimento ad una delle componenti di questi meccanismi di costruzione dell’immagine di un sovrano e di propaganda della sua popolarità. Il più famoso generale di cavalleria d’Europa dell’epoca napoleonica, noto per i suoi costumi sfarzosi e bizzarri ed i suoi atteggiamenti spavaldi, aveva fatto di questo uno degli strumenti di promozione della sua figura.
[Su questo personaggio storico, Charles Gallois, Murat, Genova 1990 e R. De Lorenzo, Murat, Roma, Salerno 2011] La professoressa De Lorenzo sta precisamente parlando di questo quando accenna al suo aspetto fisico, non esprimendo un suo personale apprezzamento per un uomo morto nel 1815, come invece, incomprensibilmente, De Crescenzo ipotizza possa avere fatto. Mentre la studiosa discute di storia culturale, il presidente dei Neoborbonici fa una battuta sulla «autrice, forse non insensibile al “fascino” del cognato di Napoleone».
Questo modus operandi di De Crescenzo ricorre altre volte nel suo testo. Ad esempio, egli commenta il titolo del saggio della storica universitaria con le seguenti parole: «un titolo ambiguo e ambivalente che potrebbe anche ammiccare al (foltissimo, secondo dichiarazioni barberiane) pubblico degli storici non ufficiali (quelli che “trangugiano”): Borbonia Felix… potrebbe non essere un caso e non vorremmo mai che qualcuno potesse ipotizzare “fini immondi” e magari anche commerciali» (De Crescenzo, Il sud, cit., p. 17]. Eppure, l’intitolazione dello studio della professoressa non ha alcun connotato ambiguo e non ha fini commerciali.
Esso è un evidente richiamo alla formula analoga e più nota di Austria Felix ossia al cosiddetto mito asburgico. Lo scrittore e critico letterario Claudio Magris ha coniato la fortunata espressione di mito asburgico per esprimere l’immagine, sorta in ambito letterario presso alcuni scrittori della Mitteleuropa, d’un impero asburgico pacifico e cosmopolita, capace d’assicurare la convivenza fra i suoi vari popoli componenti. Si tratta però appunto d’un “mito” d’origine letteraria: la realtà storica era ben diversa. Il Magris stesso ha dichiarato che il suo libro nasce appunto come critica e demolizione del mito stesso, nonostante sia stato ben presto frainteso e considerato quale una sua esaltazione (C. Magris, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino, Utet 1963).
Il mito asburgico non è un unicum, poiché vi sono altri casi analoghi. Ad esempio, dopo la sua scomparsa è sorto il mito dell’Old South anteriore alla guerra civile. Negli Usa si parla per questo della letteratura della Lost cause (la Causa perduta), il cui esempio più popolare è il romanzo Via col vento, da cui è stato tratta la pellicola omonima. Ma anche qui esiste un divario netto fra l’immagine mitizzata e quella reale (K. B. Grant, G. Grant, Lost Causes: The Romantic Attraction of Defeated Yet Unvanquished Men and Movements, Nashville 1999). Il titolo Borbonia Felix è quindi un’allusione raffinata che suggerisce al lettore colto a cui si rivolge il saggio di De Lorenzo, quale sia l’indirizzo ermeneutico dell’opera che verte sulla storia socioculturale ed anche sul contrasto fra l’immaginario propagandistico e la mitologia della causa perduta borbonica da una parte, la realtà storica dall’altra. Non casualmente il suo libro si chiude con una citazione di Joseph Roth, uno degli autori alla base del mito asburgico.
È superfluo poi rilevare che uno studio complesso, difficile e sofisticato come quello della professoressa Renata De Lorenzo possa interessare soltanto un pubblico capace di comprenderlo in tutte le sue sfumature ed i suoi rimandi, cosicché non si propone fini commerciali ma strettamente conoscitivi. Esso è un saggio destinato ad un pubblico di specialisti o di cultori della materia, necessariamente ristretto e selezionato.
L’atteggiamento di Gennaro De Crescenzo, che inserisce in un testo da egli proposto quale studio storico una serie di allusioni quali quelle suddette, è davvero insolito nella storiografia e risulta essere metodologicamente erroneo. Senza ombra di dubbio, questo alludere ad altrui persone («autrice, forse non insensibile al “fascino” del cognato di Napoleone», «potrebbe non essere un caso e non vorremmo mai che qualcuno potesse ipotizzare “fini immondi” e magari anche commerciali») discutendo di storia è inutile, non riguardando affatto la conoscenza e comprensione della storia stessa: quale pertinenza hanno con gli eventi del periodo 1799-1861 queste divagazioni? In più, i suoi contenuti sono indimostrati e, come si è spiegato sopra, estranei alle intenzioni ed asserzioni della professoressa De Lorenzo.
Eppure tale modus operandi non è raro nel testo di De Crescenzo, che ad esempio scrive anche: «Inutile chiedersi come furono scelti e assunti funzionari, magistrati, giornalisti o docenti… basta dare un occhio ai cognomi dei vincitori e dei loro eredi per capire che quella categoria (per eredità genetica o culturale) esiste e resiste ancora e, forse, giustifica le stesse posizioni intransigenti del presente» (De Crescenzo, Il sud, cit., p. 46). Egli tuttavia non prova quanto asserisce e neppure fa i cognomi di questi supposti eredi genetici o culturali, fra cui vi sarebbero anche docenti … Ancora, l’ipotesi secondo cui determinati atteggiamenti o giudizi culturali e storici potrebbero trasmettersi geneticamente difficilmente incontrerebbe l’approvazione di un genetista o di un sociobiologo, come se l’essere monarchico o repubblicano dipendesse dai geni.
[Per una critica alle ipotesi che fanno risalire comportamenti di matrice culturale a supposte differenze biologiche si rimanda a quanto ha riassunto sul rapporto fra cultura e natura umana il grande antropologo Marvin Harris, Antropologia culturale, Bologna, Il Mulino 1990, specialmente pp. 31-34]. È quantomeno sorprendente poi che il presidente del Movimento Neoborbonico parli criticamente di una presunta classe dirigente basata sull’ereditarietà, quale invece esisteva proprio in una monarchia assoluta con connessa aristocrazia di sangue quale era quella dei Borboni.
In ogni caso, siffatte sortite sono assolutamente incongrue e disadatte in quello che vorrebbe essere uno scritto di storia, poiché non forniscono alcun strumento né di conoscenza dei fatti storici né di comprensione dei medesimi, traducendosi in sterili tentativi di polemica che possono essere apprezzati unicamente dalla tipologia di pubblico a cui De Crescenzo pare rivolgersi.
[Non è certamente possibile riassumere qui, anche solo molto brevemente, le diverse teorie di metodologia storica, ma è indubbio che queste procedure non vi rientrino in alcun modo. J Topolski, Metodologia della ricerca storica, Bologna 1975; P. Rossi, La teoria della storiografia oggi, Milano 1983.]
4. La nostalgia non uccide. Gli svarioni di De Crescenzo
Il carnet di De Crescenzo contiene inoltre numerosi errori fattuali, facilmente rintracciabili, oppure omissioni di particolari fondamentali. Ad esempio, egli si sforza di suggerire che il Regno delle Due Sicilie avesse all’incirca un Pil pro capite pari a quello del centro-nord, mentre questo è contraddetto dalla totalità o quasi degli storici. Gli studiosi solitamente concordano che si desse un minore sviluppo economico del Meridione relativamente al Settentrione, considerando i vari indici e dati statistici nel loro complesso. Il divario nord-sud difatti è solitamente ritenuto preesistente al 1861, checcé ne pensi il presidente del Movimento Neoborbonico. Un dislivello ancora più ampio si riscontrava però, secondo quanto sostengono numerosi studi supportati da ampia documentazione, nel capitale sociale, in cui un ruolo di rilievo spetta anzitutto all’istruzione.
[Una recente sintesi dello status quaestionis è offerta da Emanuele Felice in Italy’s North-South divide (1861-2011): the state of the art, Universitat Autonoma de Barcelona, 16. February 2015, online at http://mpra.ub.uni-muenchen.de/62209/ . Il Pil pro capite è cosa differente dai cosiddetti indice di sviluppo umano (Hdi, Human Development Index) ed indice fisico di qualità della vita (Pqli, Physical Quality of Life Index). Le differenze regionali dal 1871 al 2001 per quanto concerne l’Hdi o indicatore sociale sono stati analizzati da Emanuele Felice nel suo articolo I divari regionali in Italia sulla base degli indicatori sociali (1871-2001), in Rivista di politica economica, 2007, fasc. IV].
De Crescenzo, inoltre, suppone una scolarizzazione diffusa nel Regno delle Due Sicilie, nonostante essa sia negata e confutata da tutto ciò che si sa sulle condizione di quel reame. Nel 1861 il Nord aveva il 54% di analfabeti, contro l’87% del Sud: questo per le diverse politiche dei governanti, quindi per precise responsabilità dei Borboni. La percentuale di studenti universitari in rapporto alla popolazione complessiva era dello 0,3% settentrionale contro lo 0,1% meridionale. Limitandosi a Lombardia e Piemonte, la scolarità primaria era pari al 93 %, mentre nel Regno delle Due Sicilie arrivava al 18% su di una media nazionale del 43%. Anche la semplice distribuzione geografica delle scuole elementari era sbilanciata, poiché il solo Piemonte ne possedeva rispetto al totale generale (8467) circa un terzo e gli scolari piemontesi costituivano, naturalmente, un terzo del totale degli scolari italiani (361.970). All’opposto, nel Mezzogiorno un terzo dei comuni era totalmente privo d’ogni tipo di scuola. La Sicilia, con una superficie maggiore della Lombardia e una popolazione di poco inferiore, possedeva sette volte meno scuole della Lombardia (946 contro 7069) e quasi dodici volte meno scolari (25033 contro 302372).
[Ester De Fort, Storia della scuola elementare in Italia, Milano, Feltrinelli 1979; Vera Zamagni, Istruzione e sviluppo economico. Il caso italiano. 1861-1913, in Gianni Toniolo (a cura di), L’economia italiana 1861-1940, Roma-Bari, Laterza 1978, pp. 137-178; Giovanni Genovesi, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Roma-Bari, Laterza 2001; B. Fiocco, Le “misure” dell’Italia nell’Annuario Statistico Italiano, Roma 2009]
Ma le confutazioni degli insostenibili assunti di questo signore sull’economia borbonica straripano e riportarne un elenco completo sarebbe tanto lungo quanto inutile, trattandosi di sfondare la proverbiale porta aperta. Basti aggiungere ancora che il presidente dei neoborbonici parla in termini elogiativi del commercio delle Due Sicilie. Sfortunatamente per le sue tesi, questo reame era in tutta Europa il paese con il più basso commercio estero pro capite, ossia in percentuale al numero di abitanti. Il suo commercio internazionale annuo nel 1858 era di soli 6,52 ducati per abitante. Tutti gli altri stati italiani avevano livelli superiori, che andavano dai 40,13 ducati pro capite del regno di Sardegna (sei volte quello del regno delle Due Sicilie) sino ai 9,06 dello stato pontificio. Anche tutti gli stati europei dell’epoca avevano indici di commercio pro capite superiori a quelli del Regno delle Due Sicilie. Ad esempio, l’Austria (incluso il Lombardo-Veneto) era ad 11 ducati pro capite, la Francia a 35, l’Inghilterra a 71 etc. In ogni caso, il regno borbonico era l’ultimo in Italia per commercio pro capite ed anche in tutta l’Europa. Come se questo non bastasse, la bilancia commerciale del regno delle Due Sicilie era in negativo ossia in disavanzo.
[Augusto Graziani, II commercio estero del Regno delle due Sicilie dal 1832 al 1858, in Archivio economico dell’Unificazione italiana, Roma 1960, serie I, vol. X]
Le affermazioni discutibili o senza ombra di dubbio erronee di De Crescenzo comunque abbondano nel suo testo e non si esauriscono affatto in quelle poche che, per brevità, sono state sopra indicate. Per esemplificare, si riporta il seguente caso, che potrebbe ritenersi di per sé marginale ma che è paradigmatico. Il presidente del Movimento Neoborbonico conclude il suo libretto scrivendo che «un documento ci lascia una testimonianza significativa e struggente. Domenico La Porta, militare di leva di anni 24 […] morì nell’ospedale della Succursale di Fossano il 16 dicembre del 1863. Causa del decesso certificato dal cappellano don Francesco Broda: “nostalgia”» (De Crescenzo, Il sud, cit., p. 128]
De Crescenzo imbastisce un esercizio di retorica ed inserisce questa perorazione: «Tali e tante saranno state le sofferenze di Domenico La Porta al punto da costringerlo a gridare quel “dolore del ritorno” fino a lasciarsi morire pochi giorni prima del Natale del 1863. A cosa pensava Domenico La Porta su quel letto di ospedale così lontano da Sessa Aurunca? Al matrimonio con la ragazza che lo aspettava al paese?» [Op. cit.] Come faccia a sapere De Crescenzo che cosa pensasse La Porta in punto di morte non è dato capire, come pure dell’esistenza di una fidanzata che avrebbe aspettato il soldato al paese.
Ma l’aspetto rilevante non è la tirata melodrammatica sulla sorte di La Porta o gli interrogativi su che cosa pensasse, ma il fatto che questo soldato non è morto di nostalgia, come invece crede De Crescenzo, che è caduto in un grosso e banale equivoco. Nell’Ottocento si credeva nell’esistenza di una malattia chiamata nostalgia del soldato, tuttavia il progredire della scienza medica ha portato a capire che essa non esiste.
I medici ottocenteschi catalogavano come nostalgia ciò che oggigiorno è definito e giudicato in tutt’altro modo, neppure una sola malattia ma una pluralità di mali diversi. I medici ottocenteschi difatti attribuivano alla nostalgia sindromi che potevano colpire il cervello, i polmoni, l’apparato intestinale, il sangue. Non esisteva neppure consenso su quali fossero i sintomi e gli effetti di questa (inesistente) malattia. In altre parole, la medicina in un passato ormai remoto parlava di “nostalgia” per tentare di spiegare alcune patologie che erano allora ancora incomprensibili. [M. Aliverti (a cura di), Pietro Cipriani e la medicina del suo tempo, Firenze, Polistampa 2004, pp. 210 sgg.; Alfredo Vassalluzzo, La tela di Narciso. Innamoramento nostalgia e melanconia, Trento, Edizioni del Faro 2013, pp. 38 sgg.]
Domenico La Porta pertanto non è morto di nostalgia, ma di un qualche male di altra natura che i medici nel 1863 non potevano diagnosticare ed a cui oggi non si può risalire, non essendo riportato nella documentazione amministrativa e non essendo ovviamente possibile fare un’analisi medica del soldato defunto.
Sulla base di questo errore storico, il presidente del Movimento Neoborbonico cerca di far leva sull’emotività del lettore o dell’ascoltatore ed imbastisce frasi sentimentali sulla base di un evento che non è accaduto, poiché Domenico La Porta non è morto di nostalgia e s’ignora quale sia la causa del male naturale che lo ha ucciso.
Vi sarebbe moltissimo altro da aggiungere sul libretto del signor De Crescenzo, potendosi soffermare anche su dettagli minimi ma rivelatori. Ad esempio la professoressa De Lorenzo adopera l’espressione e longue durée, che come è noto risulta coniata dal grande storico francese Fernand Braudel del prestigioso gruppo riunito attorno alla famosa rivista storica Les Annales (F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Utet 1976). De Crescenzo nella sua replica cerca di dare prova di cultura storiografica scrivendo: «Proprio sul piano del contesto o della “lunga durata” (evitando i francesismi degli Annales)» (De Crescenzo, Il sud, cit., p. 21). Il presidente del Movimento Neoborbonico scrive Annales al maschile, quando questo termine è invece femminile in francese …
Come direbbe il Poeta, e quinci sian le nostre viste sazie.M
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