Populismi e non solo. La postpolitica secondo Molinari
Nel suo “Perché è successo qui” il direttore de La Stampa spiega il suo punto di vista sul trend internazionale che parte dalla Brexit e da Trump e arriva in Italia col successo dei gialloverdi
Quando passerà la buriana, un libro come Perché è successo qui, uscito all’inizio dell’inverno per la milanese La nave di Teseo, finirà semidimenticato nelle bancarelle dei remainders.
E non perché sia un brutto volume, anzi: una firma come quella di Maurizio Molinari, giornalista di grande competenza e direttore de La Stampa, è garanzia di qualità.
Ma questo pamphlet, dedicato all’ascesa dei populismi in Italia, non aggiunge né toglie nulla alle analisi sciorinate a tutti i livelli negli ultimi mesi. Soprattutto, non approfondisce di una virgola una materia su cui da uno come Molinari – che in realtà mastica la politica molto più e molto meglio di quanto traspaia dalle poco più di cento pagine di questo pamphlet – sarebbe lecito pretendere di più.
Presentato con gli strilli altisonanti con cui la grande stampa lancia i prodotti di uno dei suoi big, Perché è successo qui, promette di spiegare in dodici agili capitoletti la parabola discendente della politica italiana, finita in mano a movimenti – soprattutto M5S – che sventolato a lungo la bandiera dell’antipolitica.
A proposito di promesse, Molinari dice che «Questo volume è stato scritto “on the road”, usando laptop e smartphone per prendere appunti durante viaggi e trasferimenti sul territorio italiano da quando, il 1° gennaio 2016, ho assunto la direzione della “Stampa”, percorrendo a oggi un totale di almeno 197.118 km. Questi spostamenti fra città, paesi e piazze di una vibrante e imprevedibile nazione mi hanno consentito di riscoprirla dopo aver passato quindici anni all’estero, provocando in me una raffica di sensazioni nuove frutto dei sensibili cambiamenti avvenuti».
Peccato solo che di questi chilometri macinati – su cui non dubitiamo ma che si dovrebbero tradurre in opinioni raccolte, scambi di idee e analisi dal vivo – nel libro non ci sia quasi traccia.
Un esempio lampante è il primo capitolo, Aggrediti dalle diseguaglianze. L’analisi di Molinari è impeccabile e a tratti brillante, ma con due limiti. Il primo riguarda le fonti: l’autore ne usa e cita solo una, cioè il Rapporto Bes 2017 dell’Istat dedicato a Il benessere equo e sostenibile in Italia. Con un materiale così preciso sbagliare è impossibile. Peccato solo che manchi la sostanza: la descrizione dettagliata dei malesseri che generano diseguaglianze.
L’analisi, ripetiamo, è brillante. Ma è condizionata da un punto di vista limitato, che una volta si sarebbe definito altoborghese: Molinari, infatti, lega la débacle delle forze politiche tradizionali a una dinamica internazionale, iniziata negli Usa, con la parabola discendente dei Democratici del dopo Obama (ma anche del tradizionale estabilishment repubblicano) e l’ascesa dell’outsider Donald Trump.
Molinari interpreta questa dinamica in termini semplicistici: nonostante che il programma di Hillary Clinton mirasse ad aggredire, persino in termini colti ed eleganti, il problema delle diseguaglianze, gli americani, fiaccati dalla crisi e indeboliti dalla globalizzazione, hanno preferito identificarsi nel rude magnate.
Applicato all’Italia, questo schema mostra limiti ancora più forti: Renzi e Berlusconi, i politici tradizionali, avrebbero peccato di miopia politica e non si sarebbero quasi accorti del malessere – raccontato invece con estrema precisione – di consistenti fasce della popolazione e non avrebbero fatto nulla per fermare la slavina. Con un risultato: il destino dell’Italia è stato consegnato a forze che «non hanno partecipato alla scrittura della Costituzione» e che perciò costituiscono incognite di non poco conto (almeno se abbiamo ben compreso il sottinteso di Molinari: non aver partecipato alla scrittura della Costituzione, potrebbe significare anche non condividerne i valori).
Peccato: sull’argomento ci sarebbe stato da dire molto di più. Ad esempio, che i trend populisti sono stati anticipati e rodati proprio da Berlusconi e Renzi, che hanno, rispettivamente, introdotto e rafforzato quella comunicazione semplicistica e ad effetto tipica di tutti i populismi, che alla fine gli si è ritorta contro come un boomerang quando la loro narrazione si è scontrata con una realtà pesante.
Un discorso simile si può fare per il secondo capitolo, dedicato alla Paura dei migranti. Anche in questo caso, Molinari non aggiunge altro alle classiche analisi sulla xenofobia diffusa, che in Italia è esplosa in maniera più deflagrante a causa della sua dimensione provinciale e chiusa.
Il limite principale, in questo caso, è la sottovalutazione del fattore sicurezza, che è stato determinante, invece, nel portare consensi alla Lega di Salvini.
Si potrebbe continuare a lungo negli altri capitoli, dove vengono affrontati vari problemi, tutti cavalcati alla grande de Lega e M5S: la corruzione, la carenza dei diritti, la debolezza dei partiti centristi, l’euroscetticismo e la sua conseguenza, il sovranismo, il ruolo forte del web nella nuova comunicazione politica (al riguardo, sarebbe stata gradita un’autocritica sulla miopia del giornalismo tradizionale), la perdita di memoria storica, l’indebolimento della Chiesa, la riscoperta di atavismi, che Molinari definisce tribalizzazioni e il fascino (e la relativa influenza) di leader forti alla Putin.
Il quadro tracciato dal direttore de La Stampa è suggestivo ma troppo semplicistico. Descrive le dinamiche ma non ne afferra la direzione. Già: la classe politica egemone durante la cosiddetta Seconda Repubblica non può essere accusata solo di miopia. Allo stesso modo, gli italiani non sono solo vittime di diseguaglianze, povertà, corruzione e perdita della memoria storica.
Infine, non è del tutto accettabile la mitizzazione della Carta Costituzionale che fa da sottotesto al libro. A rileggere un po’ la storia contemporanea, ci si accorge invece che questi valori non sono mai stati condivisi del tutto dagli italiani, come prova la lunga presenza di forze antisistema (anche opposte tra loro) nella storia dell’Italia repubblicana. Semmai è risultata micidiale l’identificazione eccessiva tra alcune forze politiche e quei valori. Con un risultato non proprio bellissimo: crollati i custodi, sono entrati in crisi i valori, che tra l’altro non hanno mai fatto parte di una seria pedagogia democratica (tanto più che le scuole si sono ben guardate dal praticarla, tranne poche eccezioni).
La crisi ha semplicemente fatto saltare i coperchi alle pentole del malcontento, con i risultati che ci raccontano le cronache politiche.
Da uno come Molinari è lecito pretendere di più della narrazione banale di Perché è successo qui, che risulta un libro condizionato da tanti vorrei ma non posso: forse non si può bacchettare troppo l’ignoranza degli italiani, né si possono stigmatizzare le loro reazioni rabbiose alla povertà, alle ingiustizie e all’insicurezza, in chiave xenofoba e non.
Ma si sarebbe potuto e dovuto fare altro: ad esempio, i conti in tasca ai partiti tradizionali, che hanno prosperato sulle diseguaglianze e non le hanno lenite in alcun modo; ai ceti imprenditoriali, che hanno scambiato, specie in Italia, la libertà di mercato per licenza agli abusi; all’egoismo castale degli ambienti di potere, che hanno di fatto abolito ogni selezione meritocratica.
Se il sonno della ragione, a cui corrisponde la veglia eccessiva degli istinti, è durato così a lungo, non meravigliamoci che i mostri siano questi.
Peccato solo che Molinari quasi non se ne sia accorto.
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