Attenti al Sud: ora i revisionisti giocano a fare i buoni
Il nuovo libro in cui Aprile, De Giovanni, Gangemi e Nigro raccontano i mali del Sud e i possibili rimedi: molto fumo, niente arrosto e qualche patacca
Ormai anche i muri l’hanno capito: la questione meridionale è diventata un business su cui certa editoria mainstream scommette non poco: basta qualche scrittore di fama e farlo parlare di Sud alla meno peggio, anche se non è qualificato a farlo, ché tanto le rotative girano e qualche copia si vende.
Questo gioco funziona al meglio a due condizioni: se si sfruculiano i bassi istinti – cioè la frustrazione e la rabbia, tra l’altro legittime – e se si carezza la voglia di rivalsa – che, quando c’è, è comunque una benedizione – dei meridionali.
È proprio la logica che ispira Attenti al Sud, un’antologia di mini saggi di Pino Aprile, Maurizio De Giovanni, Mimmo Gangemi e Raffaele Nigro edita da poco dalla milanese Piemme.
Che quest’operazione sia squisitamente commerciale e la cultura e la passione civile c’entrino poco, lo chiarisce la postfazione di Giorgio Mulè: l’idea di Attenti al Sud, spiega il direttore di Panorama, sarebbe sorta in occasione di una tappa di Panorama d’Italia (il tour con cui il settimanale berlusconiano ha tentato di accalappiare lettori nelle province) a Matera nell’estate del 2015, in cui i quattro autori si sono messi a discettare dei problemi e del possibile rilancio del Mezzogiorno, facendo leva sul fatto che la cittadina lucana sarà capitale della cultura europea nel 2019.
Non a caso, la tesi che lega i quattro saggi è pressappoco la seguente: la cultura, la valorizzazione dei borghi e della natura consentirà il rilancio del Sud, altrimenti mortificato in maniera quasi atavica dalle politiche nazionali. E, ammonisce lo strillo della quarta di copertina: «State attenti, dicono gli autori, significa sia preoccupatevi per il Sud, sia badate a voi perché potrebbe stupirvi ed esplodervi in mano. In ogni caso, stare attenti al Sud vuol dire stare attenti all’Italia intera». Una declamazione retorica che, purtroppo, nasconde il nulla o copre in maniera pietosa concetti e dichiarazioni errate, che, in questo caso, abbondano in tutti e quattro i saggi di Attenti al Sud.
Iniziamo da Vecchia povertà e nuova ricchezza, in cui Pino Aprile riprende alla meno peggio alcune delle tematiche a cui ha familiarizzato da anni i suoi lettori: la breve storia del mondo, raccontata a mo’ di maestro elementare, con cui spiega che i Sud del mondo – la loro arretratezza e la loro povertà – sono una creazione della Rivoluzione Industriale e degli Stati nazionali e che la nuova era tecnologica, al contrario, darà più di una chance di rivincita ai piccoli e diseredati che hanno la possibilità di scavalcare i grandi e oppressori grazie alla rete.
Due sciocchezze al prezzo di una.
La prima, cioè il legame tra nascita degli Stati nazionali e Rivoluzione Industriale, è tale perché è indimostrata: è vero, intendiamoci, che i due fenomeni, politico ed economico, si sono sviluppati assieme, non è vero che l’uno sia la causa dell’altro e viceversa, almeno come l’intende Aprile. Citiamo, per non disperderci in bibliografie, che neppure l’ex direttore di Gente usa, i casi francese e inglese. La Francia iniziò a diventare Stato nazionale sin dai tempi di Filippo il Bello, cioè in una fase storica in cui l’industrializzazione era lontanissima e non esisteva neppure come prospettiva. L’Inghilterra, al contrario, divenne la prima potenza industriale della storia senza avere le strutture accentrate e la burocrazia della Francia (e della Spagna) e con gravi problemi di coesione interna.
La seconda sciocchezza riguarda le possibilità offerte dal web e dall’informazione: è vero che i borghi e le realtà meridionali hanno avuto più opportunità grazie alla rete. Ma è altrettanto vero che, senza un adeguamento delle infrastrutture materiali, queste opportunità restano virtuali. Si è citato il caso di Matera, città bellissima ma mal collegata: ecco, come possono i turisti precipitarsi in massa ad ammirare i sassi e le bellezze naturali, se non ci sono treni, aerei e altri mezzi che ce li portino in tempi accettabili?
Visto che ci siamo, vale la pena di fare una considerazione sulla riscoperta dei centri storici e dei borghi meridionali, iniziata negli anni ’90 e su cui i sudisti si inalberano con puntiglio, manco fosse una loro invenzione. Al riguardo, Aprile cita la celebre espressione di Alcide De Gasperi, secondo cui Matera era la «vergogna d’Italia» come esempio di un pregiudizio verso il dolore del Sud che ha prodotto la bellezza da cui ora ci si aspetta la rinascita.
Su questo si può osservare che la riscoperta dei borghi antichi è il prodotto di un trend urbanistico iniziato negli anni ’80, ma appunto è un trend e non un assoluto. È vero, invece, che le condizioni di vita, povere sotto la soglia di sopravvivenza e in piena promiscuità, fossero tali da generare allarme, quello di De Gasperi, e commossa indignazione, quella di Carlo Levi. Detto altrimenti: va bene, anzi benissimo, la rifunzionalizzazione abitativa e commerciale dei sassi e dei borghi, ma ciò non toglie che le ragioni che motivarono nel dopoguerra l’abbandono dei centri storici non fossero serie e importanti, perché quei borghi, allora, non consentivano condizioni di vita accettabili. E, a proposito, l’ansia da musealizzazione non deve far perdere di vista un altro concetto: una cosa è rivalutare dei luoghi, l’altra è idealizzare gli stili di vita che li produssero. Giusto per fare una metafora: ancora oggi moltissimi artisti di colore rievocano alla grande nei loro generi, il blues soprattutto, il dolore dei propri antenati. Ma nessuno di loro ha tracce concrete di questo dolore (e, ci auguriamo, vorrebbe riviverlo) da cui è nato il blues.
Non abbiamo parlato di musica per caso, visto che la sciocchezza più grossa di Pino Aprile riguarda proprio questo settore. Infatti, non pago dei tanti primati veri dei meridionali – che rivendica come se li avesse scoperti lui – il giornalista pugliese arriva ad espropriare i neri della paternità della musica che li ha emancipati per davvero: il jazz.
Improvvisandosi musicologo, Aprile cita l’esempio di una figura armonica tipica della tradizione partenopea, cioè la sesta napoletana, che sarebbe stata esportata in America dai migranti meridionali, lì si sarebbe fusa con le melodie dei neri, basate sulle elementari scale pentatoniche e avrebbe dato origine al jazz. Della serie: se non ci fossero stati i napoletani…
Per non stordire troppo i suoi lettori digiuni di musica (e che perciò non si rendono conto che Aprile confonde le scale con gli accordi), l’ex vicedirettore di Oggi esibisce come prova delle sue affermazioni il primo disco jazz mai inciso: The Original Dixieland Jazz Band dell’italoamericano Nick La Rocca. Ora, e senza togliere nulla alla grandezza di La Rocca, si può osservare che il primato del cornettista di New Orleans provi solo come nell’America di inizio ’900 incidere fosse più facile per un artista bianco che per uno di colore. Per il resto si rassicuri Aprile e rassicuri i suoi amici delle associazioni italoamericane grazie alle quali si consente vari tour negli Usa: i neri come Robert Johnson o Bukka White suonavano le blue note senza sapere neppure che si chiamavano così su strumenti improvvisatissimi, visto che non potevano permettersi quelli dei bianchi.
Non si può neppure passare sotto silenzio il cosiddetto mito della restanza, cioè il desiderio dei giovani meridionali di rimanere nella propria terra. Siamo sicuri che questa sia dovuta a voglia di riscatto e non alla necessità di appoggiarsi alle proprie famiglie d’origine, visto che i costi della vita impediscono un’emigrazione che, altrimenti, sarebbe più ampia?
Più veniali le inesattezze contenute in La responsabilità della bellezza di Maurizio De Giovanni, che si limita a riflettere sulla sua Napoli è non si improvvisa quel che non è (storico, etnologo e via discorrendo). Certo è che anche il papà dei Bastardi di Pizzofalcone prende la sua brava stecca quando afferma che Marco Garrone, il regista de Il racconto dei racconti non rende adeguato omaggio a Giambattista Basile, sua fonte d’ispirazione. Basta un semplice giro su Google per tranquillizzare De Giovanni: persino la voce di Wikipedia relativa al kolossal fiabesco di Garrone dice che questo è liberamente ispirato a Lu cunto de li cunti di Basile.
Il peggio lo si tocca con La cultura del pregiudizio di Mimmo Gangemi, un esempio da manuale di quel meridionalismo piagnone e rabbioso (e un po’ vecchio) che ha contribuito a screditare non poco le istanze meridionali.
Ora, Gangemi sarà pure un bravissimo scrittore (sebbene le sue qualità letterarie non si intravedano nel linguaggio torrenziale di questo saggio), ma una cosa è scrivere romanzi di successo, in cui sono evocate le vicende e ricostruite le atmosfere calabresi, un’altra è dimostrarsi davvero competenti negli argomenti trattati.
Ad esempio, è giusto affermare, come fa Gangemi, che la Calabria non può, non deve, essere appiattita sugli stereotipi ’ndranghetistici. E siamo d’accordissimo con lui sul fatto che anche le zone più infestate dalle cricche criminali non siano dei far west dove si rischia la pelle sol che si esca di casa (sebbene certi episodi barbari del recente passato facciano pensare il contrario). Inoltre, Gangemi ha ragione pure quando dice che la lotta alla ’ndrangheta è diventata, da una parte, una scorciatoia per carriere – militari, di polizia, giudiziarie e, ovviamente, giornalistiche e persino accademiche – e, dall’altra, un ennesimo argomento a favore del pregiudizio anticalabrese, che è già sin troppo diffuso. Il nero delle cronache, insomma, incupisce quello delle sconfitte.
Il problema di Gangemi è l’impostazione della polemica e la scelta dei bersagli. Si può polemizzare quanto si vuole con lo scomparso Giorgio Bocca, autore nei primi ’90 de L’Inferno, un saggio ormai introvabile in cui il grande giornalista dipingeva a tinte fosche la situazione del Sud e della Calabria in particolare. Fa bene Gangemi a segnalare gli errori e le imprecisioni di cui questo saggio è infarcito. Ma questi errori, probabilmente dolosi, non spostano di una virgola il problema: la Calabria era la terra dei sequestri di persona e delle pallottole conficcate anche nei crocifissi e poco importa che queste pallottole non siano quattro, come sosteneva Bocca, ma una sola, come rettifica Gangemi.
La Calabria era e resta terra di ’ndrangheta, che non è un problema di sicurezza (ce ne sono di più gravi a Milano, dove pure i mafiosi speculano alla grande) ma di futuro e di libertà.
Né vale dire che i calabresi – noi calabresi – siano presi tra i due fuochi della criminalità e della repressione dello Stato, perché ciò equivale a confessare una volta di più la debolezza della società civile, che al profondo Sud è ai minimi termini, come lo stesso scrittore calabrese ammette.
Sugli errori giudiziari, che spesso sono alla base di un clima di sospetto, occorre precisare una cosa, a costo di essere impopolari, sia tra i garantisti sia tra i giustizialisti: molte volte essi sono l’esito di sbagli formali, sanzionati eccessivamente dal Codice di procedura penale – che fu criticato da molti giuristi per eccesso di garantismo all’atto della sua approvazione – che spesso vanificano gli sforzi degli inquirenti, più che il prodotto degli sbagli reali o di atteggiamenti inquisitori eccessivi di questi ultimi. E non è un caso che questo Codice sia stato elaborato e approvato quando i ricorsi del maxiprocesso di Palermo erano alle ultime battute. Ciò non assolve certo gli inquirenti. Ma neppure li condanna, come invece fa senza mezzi termini Gangemi.
Infine non convince la ricostruzione storica della genesi della mafia calabrese e del relativo pregiudizio. Sappiamo che Mimmo Gangemi è uno dei testimonial del Comitato “no Lombroso”, protagonista proprio in Calabria di un’avventura a dir poco bizzarra, ma ciò non toglie che il suo sparatone contro Lombroso sembri un occhiolino a quelle frange di lettori procuratigli dalla vicinanza agli ambienti neoborbonici.
Stesso discorso sulla genesi della mafia, che è argomento dibattutissimo dagli storici: se neppure loro sono certi su un’ipotetica data di nascita, se cioè questa sia nata prima o dopo l’Unità, con quale sicurezza si può argomentare, come fa Gangemi che di sicuro non è uno storico, che le cosche siano un grazioso lascito del Risorgimento?
E si potrebbe continuare. Certo è che fare lo Sciascia di nuavutri non giova troppo allo scrittore reggino…
In questo coacervo di svarioni, Per una cultura ribelle di Raffaele Nigro è una piacevole eccezione. Da questo saggio, in cui l’ex caposervizio Rai dai validi trascorsi accademici riepiloga per sommi capi la storia paesaggistica, artistica e culturale della Lucania e del Materano, c’è da imparare. Perché attraverso la penna di Nigro il profondo Sud si racconta per davvero dal di dentro. Perché da queste densissime pagine emerge davvero il Meridione nei suoi chiarsoscuri.
Ma un solo saggio su quattro (e sarebbe il caso di dire: Trova l’intruso) è davvero poco per alzare la qualità complessiva di un libro tutto fumo e poco arrosto.
A questo punto vien voglia di porre una domanda a Mulè – sin troppo disposto a ospitare su Panorama le svelenate e le boutade di Aprile – e compari: lorsignori, quando la stampa che contava amplificava la questione settentrionale, nata a destra attraverso la Lega e poi approdata a sinistra, che facevano? Mulè e Aprile, dei quali non risultano voci contrarie, c’erano, sempre in testate prestigiose, ma dormivano: diciamo così per non dire assecondavano o, peggio, sostenevano. Il che fa capire come Attenti al Sud sia un’operazione culturalmente inconsistente e traballante a livello etico.
Bisogna uscire dalle redazioni, mettersi in cammino dice Mulè, che forse in redazione è inchiodato da una vita e di sicuro non fa una cronaca da un pezzo, per «superare i confini di quello che chiamarono giornalismo». Va bene, a patto di ammettere che il giornalismo non si salva sposando le cause male e in ritardo.
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