Pontelandolfo, dagli svarioni storici al falso d’autore
Dopo cinque anni di polemiche, un paese dedica una piazza a un brigante che fu colpevole della strage nel Beneventano
Nelle guerre civili c’è un tratto inquietante, che ritorna sempre: la difficoltà estrema a rintracciare i veri colpevoli degli episodi più cruenti. È capitato per le due terribili vicende, collegate l’una all’altra, di via Rasella e delle Fosse Ardeatine. Capita per episodi più lontani nel tempo: in questo caso, la strage di Pontelandolfo.
La vicenda è piuttosto nota, grazie soprattutto al battage dei revisionisti di ispirazione neoborbonica, che dura dal 2010: due paesi del Benventano, Pontelandolfo e Casalduni, appunto, furono dati alle fiamme il 14 agosto del 1861 dai bersaglieri per rappresaglia, in seguito a un’imboscata in cui caddero 41 militari italiani, tra bersaglieri e carabinieri, andati in esplorazione nei pressi di Pontelandolfo, che era stato occupato dalla banda di briganti Frà Diavolo, comandata da Cosimo Giordano.
Oggi, anche in seguito alla riscoperta della strage di Pontelandolfo, raccontata dai revisionisti come se fosse una prova tecnica di genocidio, Giordano è considerato un eroe in certi ambienti, purtroppo anche politici, ispirati non poco dalla retorica neoborbonica. Infatti, a Cerreto Sannita, il paese che diede i natali al celebre brigante, la giunta comunale, guidata da Pasquale Santagata, ha deciso, oltre un anno fa e a dispetto delle polemiche finite al vaglio della prefettura di Benevento, di dedicare una piazza al brigante.
Questione di punti di vista: se si scorre il casellario giudiziario grazie al quale finì all’ergastolo, si scopre che Giordano fu processato e condannato per molti reati simili a quelli dei mafiosi contemporanei: estorsioni, omicidi, anche su commissione, sequestri di persona e via discorrendo. E si scopre pure che Giordano continuò a commettere molti di questi delitti anche quando la fase calda, più politicamente ispirata, del brigantaggio era cessata. Infatti, il brigante, che aveva un passato da militare come carabiniere a cavallo dell’esercito delle Due Sicilie, fu pizzicato a Marsiglia, dov’era latitante, e processato da una Corte ordinaria, perché, cessata l’emergenza, i suoi erano considerati reati comuni.
Sempre per restare ai punti di vista: per altri, che considerano il brigantaggio come una forma di insorgenza civile (una resistenza, insomma), Giordano è un eroe di cui giustificano tutto, comprese le peggiori atrocità della sua banda.
Tra queste atrocità c’è l’episodio iniziale delle vicende violente che culminarono nell’eccidio di Pontelandolfo e nell’incendio di Casalduni: appunto, il massacro dei militari italiani (e non piemontesi).
Molta della verità storica sta nei documenti conservati nell’archivio parrocchiale di Pontelandolfo e pubblicati nel 2000 da padre Davide Fernando Panella, un religioso che fa lo storico con la stessa passione con si dedica alle cose sacre, cioè con fede, rigore e pignoleria. Da questi documenti risulta che i morti di quel terribile Ferragosto furono 13 e non le migliaia vagheggiate dai revisionisti antirisorgimentali. La tragedia c’è, ma l’ordine di grandezza è diverso. Ciononostante, molti media hanno insistito sull’ipotesi, piuttosto inverosimile del genocidio. Vi hanno insistito, per un certo periodo, anche testate serie, come il Corriere del Mezzogiorno, dove Pino Aprile e le sue tesi erano ben ospitati.
In tutto questo, sorge spontanea la domanda: perché questa ossessione coi numeri di una strage, che comunque ci fu, di 155 anni fa?
I numeri sono tutto in questi casi: se le vittime della rappresaglia furono nell’ordine delle migliaia, l’eccidio di Pontelandolfo è stato per davvero un massacro infame dell’esercito italiano e Giordano e chi per lui era l’eroe che si opponeva a tutto questo. Se i morti, invece, sono calcolabili nell’ordine delle decine, emerge la realtà più complessa di una guerra civile, in cui è difficile distinguere i buoni dai cattivi e in cui, senza nulla togliere al dolore di nessuno, emerge un dato: il maggior numero di vittime fu quello subito dall’esercito italiano (e non piemontese). Emerge anche che i briganti, dopo aver occupato Pontelandolfo e Casalduni, si ritirarono sull’Appennino e lasciarono soli i due paesi che li avevano accolti. Un comportamento non proprio eroico…
Ora, visto che nessuno ha smentito i dati di padre Panella, occorre farsi un’altra domanda: come mai si è insistito in questo falso storico?
La colpa principale è, naturalmente, dei media, compreso il Corriere del Mezzogiorno, a cui si può imputare un errore in buonafede, commesso per ossequio professionale nei riguardi di Pino Aprile e Gigi Di Fiore (al contrario, resta censurabilissimo il comportamento della Gazzetta del Mezzogiorno, orchestrato, parrebbe, dal suo ex direttore Lino Patruno).
Su questa vicenda, infatti, sono state dette un sacco di balle. La più grossa l’ha sparata Aprile, secondo cui il massacro di Pontelandolfo sarebbe stato addirittura quasi occultato dalla cultura ufficiale.
Per smentire, basta sfogliare la Storia del brigantaggio dopo l’Unità di Franco Molfese, un classico sull’argomento: tra pagina 99 e 100 (il riferimento è all’ultima edizione del 2012, curata da West Indian) c’è un riferimento alla vicenda che prova come sin dagli anni ’50 le problematiche del brigantaggio fossero pane quotidiano per gli storici. Celebre è anche il richiamo fatto dagli Stormy Six, rockband milanese piuttosto nota nella scena underground italiana degli anni ’70. Infine, le ricerche di padre Panella risalgono a tempi non sospetti: il 2000, quando le polemiche editorial-commerciali del 150 dell’Unità d’Italia erano lì da venire e il dibattito era riservato agli studiosi, visto che il peso dei movimenti neoborbonici era minimo.
A parlare di questa tragedia nei termini deformanti del tentato genocidio erano autori come Carlo Alianello, noti soprattutto a nicchie ridotte di lettori.
Lo slancio è stato propiziato da certa stampa, anche griffata, che ha fiutato l’affare: per vendere qualche copia in più o per tamponare la crisi della carta stampata molte firme illustri hanno pensato di infilarsi nel filone del sudismo 2.0 (sarebbe un’offesa al meridionalismo considerare meridionalisti certi revisionisti) e di vellicare i bassi istinti di alcuni settori dell’opinione pubblica del Mezzogiorno.
Alla fiera degli svarioni storici hanno partecipato in tanti: tra questi Paolo Mieli, che ha preso per buona sulle colonne del Corsera l’ipotesi del migliaio di morti. Il tutto nell’indifferenza dei direttori di testata. Ed ecco che, sulla scia dell’onda emotiva creata da questo battage mediatico, anche Giuliano Amato, all’epoca responsabile delle celebrazioni del 150esimo dall’Unità, ha preso per buona la tesi genocida e ha chiesto scusa ai pontelandolfesi a nome dell’Italia.
Intendiamoci: ha fatto comunque bene, perché i 13 morti erano inermi vittime civili di una rappresaglia militari. Ma aver chiesto scusa per migliaia di morti, che quel 14 agosto non ci furono, resta gravissimo: significa che un uomo delle istituzioni ammette colpe che non esistono.
Proprio questa vicenda ha consentito di risolvere l’equivoco, generato da un grave squilibrio: mentre i ricercatori scrupolosi come padre Panella, amanti più della verità che delle vendite, hanno a disposizione piccoli editori dai mezzi limitati, la pattuglia neoborbonica ha impazzato a lungo nell’editoria mainstream, che ha fornito megafoni altrimenti insperati e di sicuro immeritati. Per questo, a fianco del religioso, è intervenuto Mario Pedicini, già provveditore agli studi di Benevento e funzionario vecchia maniera, tutto rigore, precisione e, visto che siamo in Campania, cazzimma. Dopo aver bussato invano ad Antonio Polito, che all’epoca dirigeva il Corriere del Mezzogiorno dopo aver mollato Il Riformista per ottenere spazio a favore delle ricerche di padre Panella, Pedicini si rivolge a una firma di primo piano: Giancristiano Desiderio, giornalista e studioso di vaglia. Desiderio pubblica un articolo chiarificatore l’11 marzo 2014 e, cosa curiosa, dal Corriere sparisce letteralmente la firma di Aprile, che pure vi figurava come ospite più che gradito.
A leggere con una certa malignità i risvolti di questa vicenda, si possono cogliere alcuni dettagli di certe logiche perverse che impazzano sulla stampa di largo consumo: forse Polito, uscito non benissimo dall’esperienza de Il Riformista, non si sentiva abbastanza forte da contraddire firme blasonate come Aprile, Mieli o Di Fiore; oppure il neodirettore, distratto da altro, si preoccupava più di controllare i corrispondenti e i redattori, che fanno i conti in tasca ai vivi e rischiano le querele, mentre i morti non querelano; o infine, è stato semplice disinteresse perché il Corriere del Mezzogiorno era, per Polito, solo la tappa intermedia per arrivare ai vertici del Corsera. Difficile scegliere tra queste tre ipotesi, una meno lusinghiera dell’altra. Fatto sta che il mostro è stato creato prima dal web e poi dalla stampa. E per mostro non si intende la collezione di svarioni storici, che hanno fatto fare ai giornalisti che li hanno propagati la figura dei calzolai che vanno oltre la scarpa, ma l’aver soffiato sul fuoco delle frustrazioni del Sud.
Per fortuna la verità si è vendicata con un contrappasso beffardo: cioè attraverso l’opera di un religioso, alla faccia dei neoborbonici che cercano di cattivarsi a suon di preghiere il favore della Chiesa. Pregano, pregano sempre, senza rendersi conto che il Padre Eterno, nella Sua infinita tolleranza, sa distinguere la preghiera dallo stalking.
È il caso, a proposito di Chiesa, di ricordare a costoro che la Curia si era già espressa sulla tragedia di Pontelandolfo nel lontano 1973, per bocca di monsignor Raffaele Calabria, allora arcivescovo di Benevento: «Noi, stasera, mentre ricordiamo i nostri caduti, proprio in aderenza a questo spirito di comune fratellanza, che la rievocazione storica sottolinea come doveroso, e chiede a noi a gran voce, noi ricorderemo anche gli altri, i cari bersaglieri di Cialdini». Un bel monito a chi macina odio, o no?
Saverio Paletta
Per saperne di più:
La vera storia del massacro di Pontelandolfo
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Non amo leggere libri, preferisco testi veloci e riassuntivi. Questo è stato un piacere leggerlo, invidio questo suo modo di essere comprensibile e estremamente chiaro.
Egregio Mauro,
Mi perdoni il ritardo con cui Le rispondo. In tutta sincerità, mi permetto di consiglierLe comunque la lettura di libri, perché i testi riassuntivi sono sempre incompleti, compreso quello che ha apprezzato (e grazie!) e possono comunque sbagliare.
Un caro saluto
Saverio Paletta
Gent.le Sig Paletta
la ringrazio per gli articoli che avete pubblicato e per i commenti pubblicati che ritengo utilissimi ad una ricerca libera da visioni più “politiche” che “storiche”. Sono da sempre un appassionato di storia e mi sono incentrato sul periodo del Risorgimento. Nel 1996 lessi il libro di Ciano sui “Maledetti Savoia” prendendo per vero quanto scritto, seppur non al 100% e con qualche riserva. A distanza di tanti anni ho ripreso la mia ricerca sul fenomeno “brigantaggio” e, grazie ad internet, ho potuto consultare vari libri, approfondire ecc.. Ho scoperto così anche del caso giudiziario di Ciano proprio qui a Latina (vivo in un paese vicino). Detto questo mi permetto di scrivere che “neoborbonici” e “leghisti” con il loro carico di “revisionismo” storico, pur apparendo lontani, sono figli della stessa mamma: l’ignoranza. Ignoranza che è stata però coltivata dalle stesse istituzioni che dovevano combatterla. E’ forse il risultato di aver dimenticato cosa c’era prima di quel 1861, così come l’aver dimenticato in favore di una certa “nostalgia” politica, altri periodi della nostra storia: la Grande Guerra, il ventennio fascista, la lotta partigiana, gli anni di piombo ed altro ancora. Nei fatti di cronaca di oggi, quanto ricorderemo un carabiniere ucciso (e la sua vedova) e quanto la foto di un uomo arrestato, legato su una sedia e bendato? La storia si ripete, bisogna non dimenticare i nomi e i fatti. Io ricordo ancora un giorno che ero a scuola, anno 1978, “hanno rapito Aldo Moro”. Già tutto dimenticato, normale che lo siano i fatti di più di 100 anni fa. Ai neoborbonici consiglio di fare una ricerca sui 67 detenuti politici imbarcati nel gennaio 1859 con una destinazione sconosciuta dell’America (reale deportazione e non presunta) che non andò a buon fine perché il comandante, statunitense, temeva di essere denunciato per tratta degli schiavi (negli stati del Sud era legale la schiavitù, così come in Brasile, ma la tratta era stata già abolita da accordi internazionali), il progetto di detenzione dei “lazzaroni” di Napoli, il carcere di Marettimo. Ai leghisti, invece, consiglio di informarsi con quale denaro furono pagate le pensioni agli ex amministratori lombardo-veneti diventati cittadini italiani nel 1859 e 1866. Ce ne sarebbe da scrivere ma mi fermo qui, ringraziandovi di nuovo ed in attesa di nuovi articoli. Un cordialissimo saluto
Egregio Fernando, se ha tempo e voglia, navighi di più L’IndYgesto, che ha anche un suo motore di ricerca per agevolare i lettori: vi sono molti articoli sugli argomenti che ha menzionato.
Mi auguro tutti di suo interesse.
Grazie per l’attenzione
Caro Paletta, il mio rifiuto di usare l’aggettivo “duosiciliano” non deriva soltanto dalla sua cacofonia. Inventato dal mondo neoborbonico, a mio avviso tenta di affermare l’esistenza di una comune cultura, di un sentire unico tra tutti i “domini” soggetti alla dinastia: ma nè l’una nè l’altro vi furono mai, come – a mio modesto avviso – testimonia la quarantennale lotta della Sicilia contro il governo napoletano e la mancanza di un tessuto connettivo che legasse davvero siciliani, calabresi, napoletani. Mi scuso per l’invadenza. Buona giornata.
Ottima osservazione, che mette il dito sulla piaga dello scarso consenso al progetto borbonico fuori dal Napoletano e da altre zone specifiche. Ma soprattutto evidenzia la scollatura tra la dinastia, che preferì appoggiarsi ai lazzari, e quel po’ di ceto medio che (r)esisteva nel Mezzogiorno.
Un’analisi approfondita (e spassionata) del consenso durante il Regno borbonico rivelerebbe moltissime cose. Soprattutto che i Borbone furono un unicum nelle monarchie assolute: laddove gli altri monarchi tentarono alleanze col ceto medio per rafforzarsi nei confronti delle loro nobiltà (gli esempi francese e prussiano sono preclari), i Borbone di Napoli si legarono al cosiddetto sottoproletariato, con risultati per loro fatali nel medio periodo.
Mi fermo qui perché andremmo troppo oltre, soprattutto rispetto al dibattito innescato dall’articolo.
Le ribadisco i sentiti ringraziamenti per gli ottimi stimoli e per l’attenzione che dimostra verso L’IndYgesto.
Saverio Paletta
Spero che Alfonzo non sia un neoborbonico: se lo fosse sarebbe grave che ignorasse la presenza del corpo dei carabinieri nell’esercito del regno delle Due Sicilie (è possibile evitare l’orribile neologismo “duosiciliano” ? ). Basta ricordare che quattro compagnie di carabinieri (a piedi, quelli) facevano parte delle truppe che combatterono sotto il comando di Michele Sforza a Calatafimi.
Caro Augusto,
Grazie per l’intervento. Il neologismo “duosiciliano” l’ho mutuato da Alessandro Barbero. Lo uso perché mi piace pensare che, al di là delle personalizzazioni tipiche del potere nei sistemi di Ancien Régime, anche Il Regno delle Due Sicilie fosse uno Stato le cui vicende andavano oltre le vicissitudini dei sovrani.
Grazie ancora per l’attenzione,
Saverio Paletta
Chi pensa di dispensare certezze scrivendo che il brigante aveva un passato da carabiniere nell’esercito delle Due Sicilie, non merita altri commenti su quanto scritto per la dubbia affidabilità . Il cporpo dei Carabinieri fu istituito nel 1814 da Vittorio Emanuele I.
Distinti saluti
Alfonzo
Egregio Alfonzo,
Il corpo dei carabinieri a cavallo, che non è assimilabile ai Carabinieri Regi sabaudi (che ebbero sin da subito mansioni di polizia) esistette nell’esercito duosiciliano. Varie fonti concordano nell’indicare Cosimo Giordano come carabiniere a cavallo. Non mi pare ci sia altro da aggiungere.
Cordialità.