Alle origini dei ritardi del Mezzogiorno
Gli storici concordano su un punto: al momento dell’Unità il Sud aveva una bassa scolarizzazione e la più forte percentuale di analfabeti dell’Occidente. Le responsabilità? Del governo borbonico, che aveva investito poco nell’istruzione
L’esistenza di un notevole divario prima del 1861 fra Nord e Sud d’Italia riguardo al cosiddetto capitale sociale, specialmente quello dell’istruzione, è riconosciuta in modo praticamente unanime dagli studiosi. [Fonte: I divari regionali in Italia sulla base degli indicatori sociali (1871-2001), di Emanuele Felice, in Rivista di politica economica, 2007, fasc. IV.].
In particolare, i dati relativi all’alfabetizzazione e alla scolarizzazione, il numero dei laureati, di libri pubblicati ogni anno eccetera, in breve l’istruzione e la cultura, sono stati così spesso esaminati, approfonditi, comparati, verificati, trattati in ogni modo, che si può affermare che le conoscenze storiche su questo tema poggiano su fondamenta sicure. Lo riflessione degli esperti converge su due punti fermi: una diffusione dell’analfabetismo di gran lunga superiore nel Meridione che nel Settentrione e su percentuali maggiori di quelle dei principali Paesi europei dell’epoca; la responsabilità diretta del sistema d’istruzione delle Due Sicilie in questo cattivo risultato.
Il censimento del 1861 appurò che nel Centronord esisteva un 54% di analfabeti ed, al Sud un 87%. La media nazionale del 78 % (72 % fra la popolazione maschile, 84 % tra quella femminile) mascherava un differenziale netto fra regioni. Il divario si ripresentava, in maniera piuttosto prevedibile, anche nel settore specifico dell’istruzione accademica, poiché la percentuale di studenti universitari in relazione alla popolazione complessiva era dello 0,3% al nord contro lo 0,1% al sud.
Le differenze risultano ancora più accentuate se si confrontano non il Nord ed il Sud, ma alcuni stati preunitari fra di loro. Un semplice esempio è fornito dal confronto del numero di allievi del Regno delle Due Sicilie, della Lombardia e del Regno di Sardegna nel 1860.
Ecco i dati: Regno delle Due Sicilie: 67.431 alunni; Lombardia (la sola regione di Lombardia): 302.372 alunni; Regno di Sardegna: 361.970 alunni. Il numero di studenti delle Due Sicilie era quindi inferiore sia in termini assoluti, sia relativi al totale della popolazione, a quelli del Lombardo-Veneto e del regno di Sardegna. In altri termini, il reame borbonico aveva un numero di studenti minore nonostante avesse una popolazione maggiore.
Persino il numero delle scuole conferma questo dislivello nell’istruzione tra Nord e Sud d’Italia. Sempre nel 1861 il totale di scuole esistenti nel regno d’Italia, escludendo quindi ancora Lazio, parte della Lombardia, Veneto, Friuli, Trentino-Alto Adige e Venezia Giulia, era di 28524. Il regno di Sardegna da solo ne possedeva ben un terzo, pari a 8467. La Lombardia invece giungeva ad un quarto del totale, pari a 7069. All’opposto, il regno delle Due Sicilie nel 1859 aveva soltanto 2010 scuole primarie pubbliche: per ogni 2 scuole nel regno di Sicilia, ne esistevano 7 in Lombardia ed 8 nel regno di Sardegna. Al momento dell’unificazione, nel Mezzogiorno un Comune su tre era completamente privo di scuole di ogni tipo.
La stessa produzione editoriale mostrava l’arretratezza intellettuale delle Due Sicilie. Basti dire che nel 1816 erano stati pubblicati 653 titoli nella sola Lombardia, contro i 114 dell’intero regno borbonico.
Ogni termine di confronto conferma che il Mezzogiorno borbonico era debole sul piano culturale. Ad esempio, il numero di lettere ricevute da un abitante era, a ridosso del 1861, di 6,1 per abitante all’anno in Piemonte, di 5,3 in Lombardia, di 3,1 in Toscana, di 2,7 nello Stato Pontificio, di 1,6 nel regno delle Due Sicilie.
[Fonti consultate: F. De Fort, Storia della scuola elementare in Italia, Milano 1979; V. Zamagni, Istruzione e sviluppo economico. Il caso italiano. 1861-1913, in G. Toniolo (a cura di), L’economia italiana 1861-1940, Roma-Bari 1978, pp. 137-178; G. Genovesi, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Roma-Bari 2001, p. 225; B. Fiocco, Le “misure” dell’Italia nell’Annuario Statistico Italiano, Roma 2009; M. Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, Torino 1987].
Il panorama non muta neppure se si passa dall’esame quantitativo della scolarizzazione di massa e del numero di laureati a quello qualitativo dei principali scienziati italiani nel periodo compreso all’incirca fra il 1734 (anno della conquista borbonica del Mezzogiorno) al 1861. Un loro rapido elenco mostra che sono tutti, senza eccezioni, nativi dell’Italia centro-settentrionale: il piemontese Giuseppe Luigi Lagrangia (noto all’estero come Lagrange), uno dei più grandi matematici di tutti i tempi; il fisico piemontese Giovanni Battista Beccaria, importante studioso dell’elettromagnetismo; il chimico piemontese Amedeo Avogadro, scopritore di una legge chimica che da lui prende il nome e che ha formulato il concetto di molecola; il fisico lombardo Alessandro Volta, pioniere nello studio dell’elettricità; il matematico laziale Paolo Ruffini; il fisico emiliano Giovanni Battista Venturi; il veneto Giuseppe Zamboni, inventore della pila a secco; l’astronomo dalmata Ruggero Giuseppe Boscovich (per inciso, la Dalmazia all’epoca era una regione italiana ed il Boscovich era italiano di origine e sentimenti); l’astronomo emiliano Giovanni Battista Amici; il lombardo Giuseppe Piazzi, uno dei maggiori astronomi mai esistiti; l’emiliano Macedonio Melloni, fisico a cui la Royal Society conferì la medaglia Rumford, una specie di Nobel dell’epoca. [M. Capaccioli–G. Longo, La Scienza nel Periodo Borbonico, ovverosia l’occasione mancata, Dipartimento di Scienze Fisiche, Università di Napoli Federico II].
La percentuale dell’87 % di analfabeti era abnorme (alla lettera fuori dalla norma) anche in confronto sia ai paesi più sviluppati economicamente del periodo, sia alla media di quelli europei.
L’analfabetismo nel 1861 era del 47 % in Francia, del 45 % in Belgio ed Olanda, del 31 % nel Regno Unito, del 20 % in Germania (intesa quale Deutschland ossia la regione culturale in cui si parla tedesco, quindi comprendendo anche Prussia, Baviera, Sassonia, i vari stati tedeschi minori, Austria e Svizzera). Alla stessa data, l’analfabetismo era del 36 % in Giappone e del 20 % negli Usa. Persino un paese scarsamente sviluppato come la Spagna aveva una percentuale di analfabeti più bassa di quella del Regno delle Due Sicilie, poiché si fermava al 75 %. [Come introduzione al tema: A. Meister, Alphabétisation et développement. Le role de l’alphabétisation fonctionnelle dans le développement économique et la modernisation, 1973 Paris].
Un altro confronto consente di evidenziare la responsabilità del sistema scolastico borbonico, ovvero i suoi limiti intrinseci. Il paragone in questo caso deve essere attuato non fra nazioni diverse, oppure fra stati italiani differenti, bensì fra la scuola sotto Murat e sotto i Borboni. Ciò permette di paragonare due diversi modelli di scuola che si erano succeduti nella stessa società e nello stesso territorio.
Il Regno di Napoli murattiano nel 1814 raggiungeva i 5.500.000 abitanti, di cui 630.000 bambini in età scolare: fra questi, 125.000 erano gli allievi della scuola primaria. La parte continentale Regno delle Due Sicilie borbonico nel 1820 toccava i 5.800.000 abitanti, di cui 673.000 bambini in età scolare; fra questi, 76.062 erano gli allievi della scuola primaria. Sempre la parte napoletana del Regno delle Due Sicilie nel 1859 era salito a 6.700.000 abitanti ma aveva soli 67.431 alunni nelle scuole pubbliche.
Il fallimento dell’apparato scolastico statale delle Due Sicilie ad assicurare un’istruzione di massa è palese da questi dati, che mostrano come in mezzo secolo si fosse avuto un calo di allievi sia in termini relativi alla popolazione, sia persino in quelli assoluti. La percentuale di studenti della primaria era calato dal 4,4 % sotto Murat all’1 % sotto Francesco II, mentre il numero assoluto era sceso da 125.000 a 67.431.
[Fonti: G. Genovesi, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Roma-Bari 2001; M. Lupo, La pubblica istruzione durante l’Ottocento borbonico: spunti per una rilettura (1815-1860), in G. Gili–M. Lupo–I. Zilli (a cura di), Scuola e Società. Le istituzioni scolastiche dall’età moderna al futuro, Napoli 2002, pp. 121-141; Idem, Tra le provvide cure di Sua Maestà. Stato e scuola nel Mezzogiorno tra Settecento e Ottocento, Bologna 2005; A. Bianchi (a cura di), L’istruzione in Italia tra Sette e Ottocento. Da Milano a Napoli. Casi locali e tendenze regionali. Studi e carte storiche, Brescia 2011].
La responsabilità dei pessimi risultati delle scuole nel reame borbonico non era quindi imputabile a presunte carenze nella società o nella mentalità, bensì direttamente alle scelte politiche del governo delle Due Sicilie, che spendeva pochissimo per l’istruzione e la cultura in generale.
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Ringrazio la signora Bertolini per le sue cortesi parole ma devo precisare che io sono soltanto un lettore, esattamente come lei, non un membro dello staff che con tanto impegno e professionalità “fa” il giornale. E’ il dottor Paletta che generosamente ospita sulle sue colonne i miei fin troppo frequenti interventi.
Vorrei associarmi al ringraziamento / riconoscimento della signora Bertolini. L’onestà e la serietà storiografiche – inevitabilmente supportate da un impegnativo studio delle fonti – sono un bene ormai sempre piú raro: peraltro – spesso – anche assai “scomodo”. Un grazie sincero!
Prego! Lo staff de L’IndYgesto prova solo a fare il meglio che può. E le vostre critiche (come i vostri riconoscimenti) sono incoraggianti.
Grazie per l’attenzione
Saverio Paletta
Un grande grazie a marco Vigna, Augusto Marinelli e Saverio Paletta per queste interessanti informazioni che ci fanno capire davvero come era la situazione dopo l’Unità d’italia e per la correttezza e cortesia delle argomentazioni, Barbara Bertolini
Alla contestazione del signor Francesco Maria Volpe Montesani Marco Vigna risponderà, se vuole, per la sua parte. Sulle scuole, gli fornisco io un dato tratto dalla documentazione elaborata dalla burocrazia borbonica “prima dell’unità d’Italia”.
Dopo l’avvento al trono di Ferdinando II, grazie alla sua politica della lesina il numero di comuni forniti di scuole si ridusse drasticamente rispetto agli anni precedenti. Nel 1838 sui 122 comuni della Basilicata soltanto 81 avevano una scuola maschile e appena 15 una scuola femminile. In Calabria Ulteriore II nello stesso anno erano provvisti di scuola appena 61 comuni du 151. Il signor Francesco Maria Volpe Montesani potrà trovare molti altri dati e precise indicazioni archivistiche sulle fonti da cui sono stati tratti nello studio di Maria Barone. La scuola primaria nel Regnofra il decennio francese e la seconda Restaurazione borbonica, nel volume di AA. VV., L’istruzione in Italia tra Settecento e Ottocento, La Scuola, Brescia, pp. 737 e ss.
Certo, tutto scritto ovviamente dopo l’unità d’Italia.
La solita favoletta del sud arretrato
Egregio Volpe,
L’articolo che Lei critica è l’opera di uno studioso professionista che, con molta correttezza, cita le fonti di quel che afferma.
Se Lei o chi per Lei ha dati diversi basati su fonti (almeno) altrettanto valide, apriamo pure il dibattito.
Questi, checché ne pensi Lei, non sono argomenti da curva Sud.
Grazie per l’attenzione,
Saverio Paletta
Mi permetto di aggiungere qualche cifra al preciso articolo del dottor Vigna. Nella città di Palermo nell’anno scolastico 1858-59 funzionavano appena nove scuole-classi «lancasteriane» maschili, sette mattutine per i bambini e due serali destinate all’alfabetizzazione di operai ed artigiani, con un totale di 1815 iscritti. A rigore, si dovrebbero sottrarre dal totale gli adulti, per prendere in considerazione solo i ragazzi in età scolare: ma si tenga pure per buona la cifra complessiva. Palermo contava allora circa 190.000 abitanti; la popolazione in età scolare può stimarsi in circa 26.000 unità.
Quanto alla fandonia che corre in rete secondo la quale il neonato Regno d’Italia avrebbe chiuso le scuole nelle regioni del Sud per dieci o addirittura quindici anni, basti ricordare che al termine dell’anno scolastico 1861-1862 in Abruzzo Citeriore erano aperte 166 classi di scuola elementare frequentate da 4930 alunni. L’Abruzzo Ulteriore I aveva 94 classi con 2965 alunni. In Abruzzo Ulteriore II le classi erano 271, gli alunni 10.823. E questo in una regione nella quale nel 1857, secondo la circolare n. 141 del 27 marzo di quell’anno emanata dal Presidente del Consiglio Generale di P.I. del regno borbonico Capomazza, “ne’ comuni di frontiera” mancava “quasi interamente la istruzione primaria”, e una simile situazione si registrava anche in tutte le altre province, tanto che il Consiglio sollecitava gli Intendenti affinché i Decurionati si adoperassero per trovare maestri e soprattutto maestre per aprire le scuole, autorizzando l’assunzione in qualità di maestre anche di donne che non sapessero leggere, scrivere e l’aritmetica pratica (La circolare è pubblicata in F. Dias, Reali Rescritti, Regolamenti, Istruzioni Ministeriali e Sovrane Risoluzioni riguardanti massime di Pubblica Amministrazione, Presso Giovanni Pellizzone, Napoli 1859, p. 203).
Per quanto riguarda le altre regioni dell’ex Regno delle Due Sicilie, in quello stesso anno scolastico in Basilicata le scuole aperte erano 226 con 8489 alunni; nelle Calabrie 24.251 bambini e bambine frequentavano 718 scuole; in Puglia di alunni ce n’erano 20.611 in 475 scuole; in Molise gli alunni erano 10.046, le scuole 253. La Campania era naturalmente al primo posto in questa classifica con 1541 scuole e 61.884 alunni. (Per questi dati cfr. Statistica del Regno d’Italia. Istruzione primaria. Istruzione elementare pubblica per Comuni, Riepilogo per Province, pp. 216-217, Cappelli, Modena 1863).
L’Italia esiste come nazione da oltre 2000 anni e le prove di questo sono assolutamente schiacciati. Lo status quaestionis storiografico è anzi favorevole alla teoria dell’Italia-nazione posta quale lunga durata. Cito un mio articolo divulgativo che riassume i pareri di molti illustri storici al riguardo, fra cui Smith, Sestan, Volpe, Schiavone etc. http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&%3Bview=article&%3Bid=2494%3Ala-lunga-durata-dell-italia-come-nazione&%3Bcatid=38%3Astoria-miscellanea&%3BItemid=28&fbclid=IwAR1dLMEpbUz4ISCQ78wmx7cAWaCi-bH-L2t931mDX1dKqxZ7mZSKzfhMTdw Se vuole cercare nazioni inventate, vada nei Balcani. Le “nazioni slave” di quell’area sono, esse sì, invenzioni recenti, recentissime e con scarse basi culturali e storiche.
Ruggero Boscovich era italiano e si considerava tale.
Boscovich nacque nel 1711 nell’allora Repubblica di Ragusa, ritenuta la quinta repubblica marinara italiana. Ragusa di Dalmazia rientrava in pieno in quella nazione dalmata che nel corso dell’Ottocento Niccolò Tommaseo, autore del primo dizionario dei sinonimi e dei contrari della lingua italiana e corrispondente epistolare di Alessandro Manzoni sulle questioni della lingua italiana, tratteggiò come capace di uniformare i vari gruppi etnici presenti sul litorale orientale dell’Adriatico aventi peraltro l’italiano come lingua franca. Essendo l’illustre letterato nato a Sebenico, ancora in Dalmazia, vogliamo considerare anch’egli croato? In realtà l’odioso “esproprio culturale” è un’abitudine che è stata teorizzata da Andre Jutrovic insigne storico della letteratura croata che nel 1969 esprimeva come «gli scrittori della Dalmazia che nel passato scrissero le loro opere in lingua italiana devono essere inseriti nella nostra letteratura e nella nostra storia nazionale» poiché essi sono «scrittori croati di lingua italiana». E con tale metodo si è dato luogo a questo “esproprio” in maniera tale che nomi quali: Marco Polo, Giorgio Orsini, Andrea Meldola, Francesco Patrizi e tanti altri, si sono trasformati in: Marko Polo, Juraj Dalmatinac, Andrija Medulic, Frane Petric, e cosi via. Sono stravolgimenti che vengono rifiutati dall’intera comunità accademica internazionale, a parte quella croata, ovviamente. Nessuno di loro difatti era slavo, neppure il Boscovich (nonostante fosse l’unico ad avere antenati slavi, non croati ma serbi …).
Ruggero Boscovich (cognome italiano, non slavo! I cognomi in -ich sono italiani, a differenza di quelli in -ic) ha scritto le sue opere in latino od in italiano, è nato e cresciuto nella quinta repubblica marinara italiana, quella Ragusa in cui le lingue di cultura erano latino ed italiano, in cui la lingua parlata abitualmente era il veneto de mar, in cui la classe politica era interamente italiana etc. Egli ha vissuto la maggior parte della sua vita nella penisola italiana. Il Boscovich era così consapevole di essere italiano che, quando era docente all’università di Pavi, andò su tutte le furie quando vide il proprio cognome trascritto in forma slava e si rifiutò di fare lezione finché lo sbaglio non fu corretto. In quanto alla sua corrispondenza privata, uno studio dimostra che essa era scritta in italiano.
Giusto una precisazione… Boscovich era nativo della Repubblica di Ragusa e di origine per metà lombarda e per metà croata. Riguardo ai suoi sentimenti, non mi risulta alcun suo afflato unitarista (d’altra parte nessuno, all’epoca, desiderava l’unità di un paese inesistente), in ogni caso egli si definiva “raguseo”, non “italiano” ed ai suoi famigliari e non solo scriveva in croato.
Giro la risposta a Marco Vigna, l’autore dell’articolo.