I moti del 1848 raccontati da un fedelissimo dei Borbone
La recente ristampa delle memorie del generale Gennaro Marulli permette di ricostruire le vicende tumultuose e controverse che fecero fallire l’esperimento costituzionale nel Regno delle Due Sicilie e ne segnarono il declino definitivo. Ne emerge un ritratto inedito di Ferdinando II, intento a mediare coi rivoluzionari per evitare il peggio…
«Satana, che sparso aveva certamente il suo veleno in questa sciagurata terra, rallegravasi del flagello il più orrendo con cui possa Iddio punire i peccati dei popoli: la guerra civile in tutta la sua essenza aveva preso piede in Napoli; da tre in quattrocento colpi di cannoni e molte migliaia di fucilate avevano prodotto le morti di quasi duecento persone d’ambo le parti, e le ferite di più di 600, con la prigionia di Guardie nazionali ed altre genti di un numero pressoché simile».
Così Gennaro Marulli descrisse le macerie materiali e morali che la tragica giornata del 15 maggio 1848 lasciò a Napoli e in tutto il Regno meridionale.
Figlio del generale Trojano – conte del S.R.I., nobile di Barletta e di Bologna, patrizio di Firenze – e di donna Maria Marulli dei conti di Casamassima, appartenente a un altro ramo della stessa famiglia, Gennaro Marulli rivelò fin da giovane un talento singolare, sia nel campo militare sia in quello della storiografia. Promosso capitano nel 1845, l’anno successivo diede alle stampe un pregevolissimo volume intitolato Ragguagli storici sul Regno delle Due Sicilie dall’epoca della francese rivolta fino al 1815: in più di duemila pagine l’autore raccontò, con notevole imparzialità, gli avvenimenti che sconvolsero lo Stato del Sud nel cruciale periodo compreso fra lo scorcio del diciottesimo secolo e la Restaurazione, con particolare riguardo alla storia militare.
Nel 1848 Marulli partecipò direttamente agli scontri che ebbero luogo nella capitale, dimostrando un notevole coraggio e un franco e incrollabile attaccamento alla causa borbonica, che non venne mai meno. Più di dieci anni dopo, infatti, fu al fianco di Francesco II negli ultimi mesi del suo regno, prendendo parte alle battaglie di Palermo e del Volturno e svolgendo le funzioni di governatore di Gaeta durante l’assedio finale.
I fatti del 1848 scossero profondamente la sua coscienza di napoletano e di soldato, tanto che egli sentì il bisogno di fornire una propria versione dell’accaduto e di riflettere sulle cause dell’insurrezione. Frutto di tali meditazioni fu il pamphlet Avvenimenti di Napoli del 15 maggio 1848 ovvero cause – giornata in se stessa – conseguenze, la cui terza edizione (1849) è stata da poco riproposta dall’editore D’Amico di Nocera Superiore, con un’introduzione di Gianandrea de Antonellis, una postfazione di Francesco Petrillo e un’appendice costituita da testi di Giuseppe Mazzini e del narratore gesuita Antonio Bresciani.
Pur essendo un suddito convinto e fedelissimo di Ferdinando II e della dinastia dei Borbone, Marulli non nasconde, all’inizio del saggio, le sue simpatie per il regime costituzionale. Alla soddisfazione del nobile napoletano faceva, peraltro, da festoso contraltare l’entusiasmo con cui erano state generalmente accolte le istituzioni liberali, promesse il 29 gennaio 1848 e conseguite il 10 febbraio successivo: «Un grido di contento e di giubilo» scrive lo storico «risuonava nei paesi e terre napoletane, non che nelle italiane città, allorché la nostra civile libertà fu inaugurata». Pochissimo tempo dopo, si ebbero le costituzioni in Piemonte, in Toscana e nello Stato Pontificio. Contemporaneamente, ricorda Marulli, la notizia dello scoppio di una «forte rivoluzione» a Milano giunse a rallegrare oltremodo l’animo di quanti erano interessati all’indipendenza dell’Italia e a instillare nell’opinione pubblica il convincimento che una grande aspirazione fosse sul punto di realizzarsi: «trovarsi la penisola libera dal giogo straniero».
Ma «due potenti nemici dell’ordine», l’ignoranza e la malafede, tramutarono «il benefico avvenire in male orribile e presente», suscitando la rivolta separatista in Sicilia e facendo prevalere, a Napoli, l’estremismo di una fazione politica sovversiva.
La scintilla che determinò il divampare dell’insurrezione, a detta del cronista filoborbonico, fu una controversia relativa alla formula con cui il sovrano avrebbe dovuto giurare. Nella notte fra il 14 e il 15 maggio 1848 un gruppo di «esagerati», a capo dei quali stava Giuseppe Ricciardi, secondogenito del conte dei Camaldoli, fece circolare la voce che il re avesse tradito la parola data e che non vi fosse altra salvezza al di fuori delle barricate. «Carrozze di particolari prese a viva forza dai proprietari, altre da nolo incontrate per via, banchi di chiese, botti, carri, travi, porte, baracche di venditori d’acqua, persiane di balconi e quanto di legname era riunibile fu ammassato dai costruttori nei vari siti». Allo spuntare del giorno, gli insorti avevano eretto 17 barricate lungo la via di Toledo, fino alla montata delle Fosse del Grano (attuale via Pessina e Galleria Principe di Napoli), e ben altre 62 per le strade sopra e sotto Toledo e in diversi quartieri. Lo sbarramento più vicino a Palazzo Reale, presso San Ferdinando, venne occupato da una grande quantità di militi della Guardia Nazionale, che fecero causa comune con i rivoltosi.
Marulli, nel suo pamphlet, insiste nel dare rilievo ai tentativi di mediazione messi in atto da Ferdinando II. Sta di fatto che lo scontro fra le truppe regie, in particolare gli Svizzeri, e le milizie insurrezionali si rivelò inevitabile, e divampò con estrema violenza, senza risparmiare i civili.
Lo spettacolo che si presentò agli occhi dei regi allo spuntare del 16 maggio fu tristissimo: «Cadaveri ancora per le vie, che da’ becchini si andavano raccogliendo; case crivellate da palle di vario calibro; non più lastre, non più vetri ai balconi ed alle finestre; portoni spezzati, usci infranti: la via di Toledo fin sopra S. Teresa, il largo S. Ferdinando, quello del Castello, la strada S. Brigida e l’altra di Monteoliveto, ove fervente era stato il combattere, a percorrerle formavano raccapriccio».
Ciò che è peggio, però, lo scontro lasciò, fra l’élite liberale del Regno e il sovrano, un solco profondo di rancore e di diffidenza, reso più incolmabile dall’isolamento internazionale in cui lo Stato meridionale venne a trovarsi nell’ultimo dodicennio della sua esistenza. La pubblicistica filoborbonica, della quale Marulli fu uno dei migliori esponenti, non riuscì a ricomporre il dissidio. Restò quindi inascoltata l’accorata perorazione che conclude gli Avvenimenti di Napoli del 15 maggio 1848: «Amate dunque, o Napolitani, il Principe che Iddio vi ha dato, amatelo ed osservatelo come padre vostro, e siate riconoscenti dei servigi che ne ricevete».
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