La grande mattanza. La solita vecchia storia del brigantaggio…
Il mafiologo Enzo Ciconte prova a raccontare il brigantaggio dal punto di vista dei militari che lo repressero. L’idea sarebbe originale, ma l’impostazione è datata e qui e lì fanno capolino il piagnisteo meridionale e la tentazione di far cassetta sulla scia del successo del “terronismo” di Aprile e delle controstorie di Gigi Di Fiore
Non ha fatto in tempo a uscire, ché subito ha raccolto i plausi di alcune firme che contano.
È il caso di Attilio Bolzoni di Repubblica e di Antonio Padellaro del Fatto Quotidiano, che hanno colmato di complimenti La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza, Roma 2018), l’ultima fatica letteraria di Enzo Ciconte (Padellaro, in particolare, sì è spinto oltre e ne ha consigliato la lettura alla ministra del Mezzogiorno Barbara Lezzi).
Non che il libro dello studioso calabrese non meriti attenzione: è una ricerca piuttosto mirata che, da un lato, mira a leggere la lotta al brigantaggio dal punto di vista degli uomini, militari e civili, del neonato Regno d’Italia e, dall’altro, a inquadrare il brigantaggio in una categoria storiografica più vasta e di durata decisamente più lunga: il banditismo.
Tuttavia, la ricostruzione di Ciconte non brilla per originalità e, soprattutto, non offre al lettore più ferrato una lettura diversa da quella che, a partire da Franco Molfese, considera la repressione del brigantaggio una prevaricazione di tipo coloniale nei confronti del Mezzogiorno. Intendiamoci: la lotta al brigantaggio fu anche questo, perché l’annessione di uno Stato da parte di un altro e le conseguenti esigenze di omologazione amministrativa e legislativa comportano coazioni, politiche e militari, che possono generare reazioni violente e tali da rendere necessario un ricorso eccezionale o comunque abnorme alla forza. Ciconte, non approfondisce queste dinamiche storiche ma si sofferma sulla lettura, un po’ logorata dall’abuso, del brigantaggio come protolotta contadina e si preclude un esame a più vasto raggio che avrebbe davvero potuto far luce su aspetti poco studiati.
Intatti, mentre è giusta l’intuizione di leggere il banditismo secondo una linea di continuità storiografica che parte dal XVI secolo, risulta piuttosto discutibile applicare le vecchie categorie gramsciane solo all’Italia postunitaria, quasi come se il Risorgimento avesse creato di botto una grande frattura e avesse generato all’improvviso e da solo una grande differenza tra il sistema sociale dell’estinto Regno delle Due Sicilie, che tentava un’improvvisata modernizzazione nel quadro di una struttura politica di Ancien Regime, e l’Italia appena unita, in cui quelle stesse strutture sociali continuavano comunque a sopravvivere, seppure nel quadro di un sistema politico mutato.
Come se, detto in altri termini, vi fosse una enorme differenza tra l’azione repressiva di Francesco Saverio Del Carretto, che usò il pugno di ferro per conto dei Borbone, e quella di Bernardino Milon, che agì per i Savoia.
Come se la crisi sociale esplosa in seguito al Risorgimento avesse trasformato in maniera tanto radicale la struttura delle bande brigantesche da far diventare di colpo il brigantaggio, un fenomeno problematico ma comunque dalla chiara matrice criminale, un’insorgenza.
Ciconte parte dal banditismo, che è una categoria piuttosto elastica, in cui può davvero entrare di tutto: i banditi, nel linguaggio dei vecchi Stati assoluti dell’Italia preunitaria, erano tutti coloro che venivano inseriti in un bando, cioè in un atto del potere pubblico a metà tra il decreto amministrativo di pubblica sicurezza e la legge, che espelleva o condannava a morte per i più svariati motivi: senz’altro di tipo criminale, ma anche politico. Perciò poteva essere bandito il ladro allo stesso modo in cui poteva esserlo il soldato di ventura disoccupato o il nobile finito in disgrazia.
La categoria acquisì un aspetto più militare e politico nell’uso francese, anch’esso sorto nel medioevo ma ripreso e diffuso dalle armate rivoluzionarie e napoleoniche: brigand era in origine il soldato di ventura, ma il termine si estese fino a inglobare delinquenti di ogni risma.
Nel periodo che precede le grandi rivoluzioni gli Stati mettono a punto quei meccanismi di contrasto che sarebbero arrivati fino ad oggi (e in parte sono utilizzati ancora dagli eserciti che operano in zone ad alto rischio). Al riguardo Ciconte usa la suggestiva figura del pendolo, per indicare un comportamento che oscilla tra la repressione più brutale e la tolleranza, che comprende forme di corruzione e di utilizzo di elementi criminali – sia come confidenti e delatori sia, in non pochi casi, come ausiliari delle normali forze militari e di polizia – per combattere il fenomeno.
Ma tra i sistemi di Ancien Regime preottocenteschi e quelli, assoluti o liberali, postrivoluzionari c’è una differenza di non poco conto.
I primi sono comunque Stati minimi, che si sono fatti strada a fatica e spesso con le cattive a danno di poteri locali di tipo feudale. Le loro amministrazioni, di solito, hanno pochi uomini e mezzi: sono Stati che fanno poco e, a livello fiscale, pretendono poco.
I secondi sono Stati che iniziano ad essere di massa e mirano a gestire con criteri più razionali le proprie amministrazioni, civili e militari, per incidere in maniera più chirurgica e radicale sulle proprie realtà.
Con gli Stati cambiano anche le emergenze criminali che essi devono affrontare: c’è non poca differenza tra i gruppi sparuti con cui dovevano misurarsi gli armigeri del Viceregno di Napoli, dello Stato Pontificio, della Serenissima o del Regno del Piemonte, e le bande organizzate (e a volte politicizzate) con cui si sono misurati i militari francesi e italiani. I metodi di contrasto restano gli stessi, ma è la loro scala a far la differenza. Peccato che Ciconte sorvoli questa cesura macrostorica e inserisca nel medesimo tritacarne moralistico le truppe napoleoniche e l’esercito italiano.
Il generale Manhés combatté i briganti allo stesso modo con cui i suoi colleghi in Spagna affrontavano la guerrilla, questa sì davvero politicizzata, dei legittimisti. Certo, il suo linguaggio era truce e i metodi pesantissimi. Ma lo sarebbero stati anche quelli di Del Carretto e di Cialdini: ormai il fenomeno era di massa, quindi potenzialmente eversivo, e le risposte dovevano essere proporzionate. A prescindere dal linguaggio e dai modi più o meno razzisti usati dai repressori.
Non avrebbe certo guastato, in questo quadro, un uso della comparazione storica, che avrebbe fatto capire che lo schema di repressione utilizzato dai poteri pubblici era simile in molti contesti ambientali, anche non italiani.
Così com’è, La grande mattanza è solo l’ennesimo libro dedicato al brigantaggio. E non fa neppure differenza il fatto che lo scopo di Ciconte sia in questo caso quello di studiare il fenomeno dal punto di vista di chi era impegnato nella repressione: alla fin fine, il mafiologo calabrese fa il tifo per le presunte vittime (dalle quali esclude i militari vittime di imboscate o i contadini taglieggiati e uccisi dai briganti) allo stesso modo in cui lo facevano Aldo De Jaco e Molfese, quest’ultimo sulla scia di Gramsci, che risulta ancora un mito incapacitante per la comprensione politica del fenomeno. Passi per Molfese, che scriveva la sua opera negli anni ’50, quando il gramsciazionismo (per usare il termine di Dino Cofrancesco) era cultura egemone.
Ma uno studioso contemporaneo come Ciconte dovrebbe prendere una salutare distanza critica da certe tesi, forse ancora forti dal punto di vista ideologico ma carenti da quello scientifico: tra queste, appunto, la lettura gramsciana del brigantaggio. Detto altrimenti: il Gramsci che negli anni ’20 si occupava di Mezzogiorno e brigantaggio lo faceva non tanto da intellettuale impegnato nello studio di un problema, ma nelle vesti di leader rivoluzionario in aperta polemica contro la borghesia italiana dell’epoca, erede e in buona parte continuatrice di quella risorgimentale.
Se le cose stanno così, costa davvero così tanto storicizzare il gramscismo e dargli la sua giusta collocazione? Tanto più che un Gramsci ridotto a santino non serve a nessuno, visto che di certe elaborazioni del rivoluzionario sardo si sono potuti appropriare anche i neoborbonici senza colpo ferire.
Il peso di questo gramscismo acritico emerge con prepotenza nella ricostruzione di Ciconte del brigantaggio postunitario. Certo, anche Ciconte ammette che questo brigantaggio fu un fenomeno complesso, in cui le rivendicazioni economiche coesistevano con l’aspetto criminale (di sicuro non minimo) e con quello politico (che, invece, a conti fatti risulta residuale e limitato a livello cronologico).
E non aiuta neppure l’uso delle fonti, che risulta selettivo più a livello ideologico che a livello scientifico. Ne è un esempio vistosissimo la ricostruzione della vicenda di Enrico Guicciardi, il superprefetto che contrastò il brigantaggio nella provincia di Cosenza con l’aiuto di Pietro Fumel, il comandante che riorganizzò la Guardia Nazionale come una colonna mobile di tipo militare. Senz’altro Fumel, con l’avallo di Guicciardi usò metodi spicci e a volte brutali, più da sceriffo che da poliziotto. Tuttavia, le ricerche più recenti hanno ribadito che sia il prefetto sia il suo sceriffo ebbero in buona misura il sostegno delle popolazioni. Tra queste ricerche spicca il bel lavoro di Giuseppe Ferraro (Il prefetto e i briganti, edito da Le Monnier nel 2016), che Ciconte cita in note più volte. Peccato solo che la lettura di Ferraro vada in direzione opposta a quella di Ciconte, al punto che viene da chiedersi se l’autore de La grande mattanza abbia davvero letto il libro di Ferraro o si sia limitato a tenerne conto. Non è un limite da poco, perché il libro di Ciconte si basa soprattutto su fonti di secondo livello, cioè sulla rielaborazione dei lavori di altri studiosi.
Anche per questi motivi la tesi del brigantaggio come protolotta contadina non tiene granché. Di sicuro non erano contadini molti tra gli sbandati dell’esercito borbonico. Al riguardo, emerge un dato curioso, rivelato da Alessandro Barbero nel suo I prigionieri dei Savoia (Laterza, Roma-Bari 2012). Stando ai resoconti dello storico torinese, non pochi militari duosiciliani provenivano dal mondo dell’artigianato e dalla piccola borghesia e vari di essi avevano un discreto livello di alfabetizzazione.
Molti luoghi comuni potrebbero inoltre essere sfatati da ricerche d’archivio vere, dalle quali si potrebbe agevolmente ricavare che le principali vittime dei briganti furono proprio le popolazioni rurali. E ciò potrebbe spiegare in parte la brutalità delle reazioni dei militari, senz’altro (come ammette lo stesso Ciconte) impreparati alle insidie della guerriglia ma anche presi tra due fuochi e con popolazioni da difendere, più che da massacrare.
Ciconte, inoltre, non tiene neppure conto dei risultati più recenti della ricerca storica su singole vicende. Ed ecco che, ad esempio sul caso Pontelandolfo e Casalduni, riprende la tesi del massacro brutale senza tener conto dei lavori importanti di Davide Fernando Panella, che smentiscono o comunque sminuiscono di molto le ipotesi del massacro indiscriminato delle popolazioni. Né tiene conto della ricerca recente di Giancristiano Desiderio, che addirittura si spinge oltre e nega l’ipotesi della stessa rappresaglia messa in atto dai militari. Era così difficile aggiornarsi anche su questo punto?
Minimi i riferimenti alle mafie, se non per accreditare la consueta tesi secondo cui queste ultime sarebbero state il braccio armato del potere, identificato ora negli apparati pubblici e ora nella borghesia grassa che li controllava. Come a dire: la mafia è sempre cattiva, il brigantaggio ha comunque aspetti buoni. Peccato solo che gli episodi di manutengolismo d’alto bordo, divulgati anch’essi in abbondanza anche dalla storiografia recente, rivelino più di una collateralismo tra i briganti e il potere.
Ultima lacuna, ma non per questo la meno vistosa, è la lettura del dato giuridico. Intendiamoci, in questo caso Ciconte è in ottima compagnia, visto che a molti storici sfugge un passaggio elementare: lo Statuto Albertino era una costituzione flessibile che dava molti spazi di manovra al legislatore e agli esecutori. Per di più non regolava in modo chiaro lo stato d’emergenza e perciò lasciava molte possibilità ai prefetti, ai militari e ai magistrati. Ciò spiega i molteplici conflitti di competenze, di cui La grande mattanza dà un puntuale resoconto, che a volte sfociavano nelle liti personali tra le autorità. Ma spiega anche l’importanza della legge Pica, promulgata per contenere e disciplinare il potere di bando dei militari e non per legalizzare i loro abusi.
Tutte queste lacune rendono La grande mattanza un libro piuttosto insidioso, che divulga tesi non dimostrate o non dimostrate del tutto a livello storiografico.
Certo, Ciconte si tiene ben lontano sia dall’idealizzazione dei briganti sia dagli eccessi di certa letteratura revisionista. Ma ciò non toglie che questo libro sembri concepito per lucrare sul filone inaugurato da Pino Aprile. Inoltre, Ciconte evita la criminalizzazione tout court dei militari in prima fila nella repressione come Cialdini e Pallavicini. Ma l’intento di far leva sui malesseri del Sud scaricando le colpe su vicende e protagonisti passati è lo stesso.
La grande mattanza resta un’occasione persa di scrivere un’opera in grado di far luce davvero su un fenomeno tragico e complesso come il brigantaggio, che merita di essere studiato e non di diventare materiale per slogan. Ci spiace per Padellaro, ma la Lezzi può risparmiarsi la lettura. Di tutto il Sud ha bisogno tranne che trasformare la cultura del piagnisteo in odio.
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Quando si decideranno, infine, ad abbandonare antichi e superati schematismi ideologici nel dare giudizi sul brigantaggio?
A parte il madornale errore sull’origine della parola “brigante” (ho dimostrato in un articolo che l’etimo è ampiamente preesistente all’appropriazione fattane dai francesi, tanto da apparire, addirittura, nel Vocabolario della Crusca, ed. 1641 – o giù di lì, cito a memoria), il ragionamento di base è: è possibile che fosse la fame la molla più potente (ma non la sola!) a spingere alla latitanza, ma, una volta alla macchia, i briganti mica potevano coltivare i campi per sfamarsi! quindi, lo facevano con la carne, rapinando pecore bovi ecc. Ma non certo a scapito dei Baroni, troppo organizzati e protetti, e, quindi, a scapito dei piccoli e piccolissimi allevatori. Cioè a danno del popolo operoso.
Inoltre, avevano “normali” appetiti sessuali, cui non potevano certo dar seguito con “visite” ai bordelli: ergo, le giovani contadine lavoratrici nei campi facevano al caso. Che, poi, queste, per la morale dell’epoca, fossero costrette a “vergognarsi” ed a stare con i loro stupratori sembra non importare a nessuno, pur di elevare ai cieli il mito delle “brigantesse” (la maggior parte delle quali, non appena ne avevano l’opportunità, scappavano, denunciavano e facevano arrestare i loro aguzzini, intascavano la taglia ed andavano a vivere lontano dai loro ambienti d’origine, per i quali erano, ormai, “segnate”)