Macché eroi. Un processo ai "Briganti di Calabria"
In un libro un’operazione verità contro il revisionismo neoborbonico
Due edizioni in un quattro mesi, stock esauriti e molte richieste nelle librerie ed edicole calabresi e non solo.
Briganti di Calabria (Sensazioni Mediterranee, Pentone (Cz), 2015 e 2016) è un piccolo best seller, che deve la sua fortuna a una felice combinazione di business e intelligenza.
Il primo aspetto è sin troppo facile da cogliere nel tempismo con cui l’editore e i curatori, il giornalista Massimo Tigani Sava e lo storico Francesco Tigani Sava, sono riusciti ad inserirsi nel dibattito di massa sulla questione meridionale, riaperto in maniera impropria dai conati revisionisti antirisorgimentali esplosi a partire dal successo di Terroni in occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia.
Per il secondo aspetto il discorso si complica, perché l’intelligenza, soprattutto nell’editoria, è sempre meno facile da spiegare. Al riguardo, si può dire che Briganti di Calabria riesce a ricondurre il dibattito nella sua vera sede, quella storiografica e sociologica, iniziata da giganti della cultura italiana come Gramsci e Salvemnini e curata con rigore da generazioni di studiosi di prim’ordine.
Niente a che fare, quindi, con certe operazioni di presunta controstoria. Ciò non vuol dire che non si strizzi l’occhio al sensazionalismo, giusto per controbattere a certo revisionismo con le sue stesse armi: Stupri, Tagli di Orecchie e di Teste, Rapimenti, Crimini di inaudita ferocia. Un processo lombrosiano, recita l’efficace sottotitolo, strillato come in certe riviste.
Tolta la densa (e bella) Introduzione di Francesco Tigani Sava, Briganti di Calabria è una raccolta di documenti d’epoca, che ricostruiscono un maxiprocesso del 1867 a carico di 21 briganti, più varie testimonianze della stampa del periodo.
Dunque, atti processuali e cronache, tra l’altro già pubblicati a tempo debito, cioè 140 anni fa. Il che basta a sfatare il mito, creato ad arte da autoproclamati storici, della repressione del brigantaggio intesa come genocidio a danno dei meridionali. Non si è mai visto genocidio, tentato e realizzato, fatto alla luce del sole (neppure quello degli amerindiani) come la repressione del brigantaggio, effettuata – magari con tanti abusi, inevitabili in una situazione di estrema emergenza quale quella che si verificò negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia – comunque a norma di legge e sotto i riflettori dei media. Non si è mai visto genocidio svolgersi con il controcanto dell’opposizione calabrese, all’epoca rappresentata dal deputato di sinistra Luigi Miceli, pronta a sollevare dubbi e a lanciare accuse documentate in aula. Ergo, non fu genocidio, ma al massimo un’emergenza mal fronteggiata e turbata da eccessi, sicuramente censurabili al livello morale ma tutti da studiare e comprendere a quello storico.
Il maxiprocesso, stando sempre agli atti ristampati in Briganti di Calabria, fu pesantissimo, sia per le accuse (mutilazioni, omicidi piuttosto cruenti, sequestri di persona, violenza carnale, quest’ultima, sempre stando agli atti, a danno di donne, ma non è da escludere che in quel clima di degrado ci sia stata una certa imparzialità verso i sessi e le fasce d’età…), sia per le condanne.
A quest’ultimo riguardo, val la pena di ribadire che Pietro Bianchi, Benedetto Greco, Pasquale Perrelli, Odoardo Trapasso, Gabriele Donato, Giuseppe Donato, Beniamino Ferreri, Pasquale Dardano, Bruno Fera-Colosimo e Antonio Critelli-Grio furono condannati a morte. Invece Evangelista Russo, Antonio Sabatino, Sebastiano Longo, Filippo Fazio, Pasquale De Fazio e Nicola Chiarella furono condannati all’ergastolo e ai lavori forzati.
Pene più miti (dati il contesto e le accuse), invece, toccarono a Francesco Esposito-Canino (ventidue anni ai lavori forzati), Angelantonio Greco e Bruno Gentile (venti anni ai lavori forzati), Giuseppe Mazza (venti anni ai lavori forzati) e Saverio Calogero (dieci anni di carcere).
Non abbiamo fatto quest’elenco di imputati e relative condanne – anche ai risarcimenti nei confronti delle vittime – in maniera gratuita ma in seguito a una verifica, grazie alla quale abbiamo scoperto che nessuno di loro figura nel martirologio dei neoborbonici né è menzionato, come vittima del Risorgimento, nei volumi di Pino Aprile e di altri parastorici. Strano, visto che Sensazioni Mediterranee non è stato il primo editore ad occuparsi di questo processo, già pubblicato nel 1867 a sentenza emessa e quindi disponibile per la consultazione a tutti i topi d’archivio a cui i revisionisti apriliani si vantano di aver dato voce.
Ma andiamo avanti. Briganti di Calabria non è una semplice antologia di atti, ma contiene, per quanto tra le righe, un preciso apologo morale: la scarsa conoscenza del brigantaggio, secondo i compilatori del volume, rischia di perpetrare una cultura criminogena che è ancora presente, come puntualmente riportano le cronache, nel Profondo Sud. Scrive, infatti, Massimo Tigani Sava nella sua Premessa: «Leggendo le tante pagine dedicate in particolare alla fredda cronaca, come si direbbe oggi usando un linguaggio giornalistico, colpiscono le crudeltà e i livelli di sanguinosa violenza che caratterizzano le “gesta” di molti briganti e brigantesse. Né si può evitare di confrontare alcuni episodi criminali avvenuti circa centocinquanta anni fa con i drammatici racconti che hanno impressionato l’opinione pubblica dalla seconda metà del secolo scorso agli anni più recenti». E ancora: «Ecco, quindi, che la violenza sanguinaria di lunga durata appare un filo conduttore che c’è e che non si può negare, che unisce secoli di storia. Un filo rosso che non abbandona mai le fasi più tormentate della storia meridionale e calabrese, che denota comunque inciviltà, ritardo mostruoso nel recepire i crismi della convivenza regolare, il porsi sempre contro in modo ferino, una sorta di anarchia primordiale e indomita».
Inoltre, che ci sia una lacuna conoscitiva sul brigantaggio lo ribadisce Francesco Tigani Sava nel Capitolo I: «Di questo fenomeno, al tempo stesso sociale e politico che per secoli ha funestato la società meridionale e quella calabrese in particolare, che cosa conoscono soprattutto le nuove generazioni? A parte qualche frettoloso accenno che si trova nei loro manuali di storia e le occasionali “lezioni” sull’argomento di non molti insegnanti particolarmente sensibili ai problemi di storia locale, la complessità di una vicenda lunga, sanguinosa, violenta al di là di ogni immaginazione, con radici profonde nell’economia e nella stessa mentalità delle popolazioni del Sud si perde tra i tanti argomenti che essi studiano nel corso dell’anno scolastico». La lettura di Francesco Tigani Sava è, come abbiamo già detto, classica e riconduce il fenomeno al meridionalismo più canonico.
Tuttavia c’è una ambiguità: il lungo riferimento a Cesare Lombroso, operato nel Capitolo II. È impossibile riferire il maxiprocesso del 1867 riportato nel libro alle teorie del celebre criminologo veronese per il semplice motivo che all’epoca la tesi lombrosiana del delinquente nato era di là da venire. Infatti, stando alle annotazioni dello stesso Lombroso, la prima intuizione sull’innatismo criminale risale a fine 1871, l’anno in cui lo studioso esaminò il cranio del presunto brigante Giuseppe Villella, mentre la prima teorizzazione completa dell’argomento si ha nel celebre L’Uomo Delinquente, la cui prima edizione risale al 1876. Fino ad allora, come correttamente riporta Francesco Tigani Sava, l’unico scritto di Lombroso sul Sud è In Calabria (1864), un pamphlet appassionato che, paradossalmente, anticipa molte tematiche del futuro meridionalismo.
Insomma, il maxiprocesso non fu lombrosiano, salvo che non si voglia pensare a un lombrosismo senza Lombroso. Le varie descrizioni estetiche degli imputati e dei condannati, semmai e più semplicemente, sono dovute al costume letterario (tracimato nel linguaggio giornalistico) dell’epoca, per cui il delinquente era sempre brutto e cattivo. Per fare una battuta, si può dire che per avere un cattivo figo ci sono voluti i film di Dracula con Christopher Lee…
Stesso discorso per la pretesa insensibilità sociale dei magistrati calabresi che gestirono il processo, denunciata anch’essa da Tigani Sava: una cosa è la ricerca delle cause sociali del crimine, un’altra l’applicazione della legge, soprattutto delle leggi d’emergenza, come appunto la legge Pica. Eccedere con l’interpretazione sociale significa, anche nel caso delicato del brigantaggio, disconoscere la funzione, comunque importante, di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, demandata, soprattutto in quegli anni terribili, alla magistratura, alle forze dell’ordine e all’esercito.
Ci fermiamo qui, sebbene l’argomento meriterebbe un dibattito più ampio. Dibattito che Briganti di Calabria ha il merito di aver riaperto nei confronti del grande pubblico, altrimenti condannato a sorbirsi le tesi del revisionismo più commerciale.
Saverio Paletta
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