Fascisti della parola: l’irriverente crociata di Vittorio Feltri contro il politically correct
Il direttore del Giornale si diverte a riabilitare nel suo ultimo libro una serie di vocaboli banditi dal linguaggio comune: frocio, zingaro, vecchio, terrone (per il quale a suo tempo ha passato dei guai) e via discorrendo. Ironia a fiumi ma retrogusto amaro: il controllo del linguaggio, avverte il celebre giornalista, è la prima spia d’allarme delle culture totalitarie…
[Un doveroso avvisto al lettore: chi scrive condivide appieno i contenuti del libro di Vittorio Feltri, di cui state per leggere la recensione. Perciò riporta tal quale la terminologia, soprattutto quella più piccante, del volume. Tuttavia, l’autore dell’articolo precisa di aver usato questi termini senza alcuna intenzione offensiva. Infatti, ce l’ha solo con i fautori delle censure e delle violazioni della grammatica che vorrebbero creare linguaggi più o meno “inclusivi”. Ma verso costoro non ci sarebbero davvero insulti e parolacce a sufficienza]
È una moda perversa, che sarebbe innocua a due condizioni: se le parole fossero solo chiacchiere e se certe forme di manipolazione e controllo del linguaggio non avessero l’avallo di parte del mondo accademico.
Invece, la foga censoria di tanto progressismo bigotto – quasi irrilevante nella vita reale ma a rischio egemonia nell’estabilishment culturale e in tanta editoria mainstream – obbliga a prese di posizione serie. Ne è un esempio gustosissimo Fascisti della parola (Rizzoli, Milano 2023), il ventunesimo libro di Vittorio Feltri, per l’occasione più provocatorio che mai, a partire dal sottotitolo: Da “negro” a “vecchio”, da “frocio” a “zingaro”, tutte le parole che il politically correct ci ha tolto di bocca.
Il pamphlet feltriano è la versione pop della polemica contro la cancel culture, che da noi è partita con un certo ritardo. Si pensi, al riguardo, che in Francia un big della cultura come Pascal Bruckner è in prima fila da quasi vent’anni nel contrasto a certe imposizioni culturali e linguistiche (che però, c’è da aggiungere, Oltralpe sono più invasive e prepotenti che da noi).
Certo, anche in Italia non mancano esempi di polemiche di un profilo più alto, nei confronti della subcultura di post sinistra. Tra questi spicca I nuovi barbari (Lindau, Torino 2023), un bel saggio con cui Giulio Meotti de Il Foglio fa i conti in tasca alle lobby internazionali della cancel culture.
Ma è quasi inutile ripetere una cosa: sul piano strettamente giornalistico (cioè quando si mira a toccare il senso comune) per certe polemiche ci vuole uno come Vittorio Feltri, che tra l’altro da solo non basta.
Le parole proibite? Le salva Feltri
Inutile spoilerare troppo un pamphlet, tra l’altro divertente, come quello di Feltri. Ci limitiamo solo a citare alla rinfusa alcune parole censurate dalla nuova sinistreria (la sinistra vera, al contrario, dava lezioni di sapidità linguistica) e riabilitate dal direttore de Il Giornale.
Iniziamo con negro. Feltri, in questo caso, si diverte a citare alcuni esempi tratti dalle cronache.
Innanzitutto, l’ex presidente francese Sarkozy crocifisso per non aver spiegato bene che con l’espressione scimmie non si riferiva alle persone di colore (pardon, ai negri), ma intendeva proprio i quadrumani.
In seconda battuta, la vicenda dell’ex vicesindaco di Cittanova, Fausto Troiani, finito sotto processo per diffamazione perché aveva definito negra l’ex ministra Cécile Kyenge. Non occorreva Carnelutti per capire che negro non è un termine in sé offensivo. Infatti, sono bastati i giudici di Macerata, che hanno prosciolto Troiani.
Negro, specifica ancora Feltri, non è neppure una parolaccia, visto che è la traduzione del latino niger, che sta per nero. Non mancano i grandi esempi cinematografici: Via col vento (chi non ricorda la mitica Mami?) e Indovina chi viene a cena, in cui un fighissimo Sidney Poitier si definisce negro con orgoglio.
Ma, siccome è vecchio, Feltri non cita Quentin Tarantino, in particolare Pulp Fiction e Jackie Brown, in cui l’appellativo negro vola ogni tre per due in tutte le accezioni, le peggiori delle quali sono in bocca a Samuel L. Jackson, che non è precisamente uno scandinavo (anzi: ariano). E Feltri è vecchio anche a livello musicale, altrimenti avrebbe citato almeno la mitica Colpa d’Alfredo di Vasco Rossi (quello vero), col negro che rimorchia a più non posso per motivi comprensibili solo in punta d’allusione («Ogni sera ne accompagna a casa una diversa/chissà che cosa gli racconta»).
E vogliamo, per caso parlare di frocio? Nelle terminologie omosessuali Feltri – che tra l’altro è iscritto all’Arcigay pur essendo etero – sguazza alla grandissima. I gay, argomenta, si definiscono a vicenda o da sé froci o ricchioni senza che questo suoni offensivo. E cita l’esempio di Paolo Isotta, storica firma del Corrierone, che diceva di sé: «Io non so gay, io so’ ricchione». Resta un problema: come definire le persone di altro orientamento sessuale?
Feltri procede per esclusione: omosessuale fa troppo clinica, Lgbtquia+ fa troppo burocrazia e mescola, senza riguardi, situazioni diverse (gay e transgender, ad esempio). E allora? Feltri, sempre attento alla filologia, stavolta non si interroga sui significati delle parole frocio e ricchione, ma si limita a considerarne non illecito l’uso.
Noi, invece, le traduciamo e spieghiamo perché non vanno bene. Frocio, che è la versione romanesca di floscio, sta per molle o effeminato. Ricchione, invece non ha derivazioni certe. Secondo alcune fonti potrebbe derivare dal veneziano recion, che designava gli schiavi neri (anzi, negri) adibiti al soddisfacimento sessuale dei carcerati. In particolare, recion indicava il pendaglio a forma di campanella che il povero disgraziato portava alle orecchie per annunciare il suo arrivo. Quindi anche questo termine è troppo legato all’effeminatezza. Nulla di male, intendiamoci: ma usare frocio e basta, quando esistono molti gay dai modi e dall’aspetto virilissimo, è quantomeno limitante. Chi scrive preferisce gay: inodore, insapore, incolore e persino simpatico.
In questa carrellata non può mancare il passaggio su terrone, un termine sul quale Feltri è riuscito a ficcarsi nei guai con l’Ordine dei giornalisti e poi a cavarsela alla grande, cancellandosi da sé dall’albo professionale quando non aveva più nulla da perdere – e, anzi, tanto da guadagnare – da questa scelta.
Perché terrone è offensivo e polentone (usato altrettanto spesso e non sempre in maniera innocua) è solo e sempre una parola scherzosa? Feltri, oltre ai propri, cita i guai passati dalla giornalista (ed ex collaboratrice di Libero) Azzurra Barbuto, finita nel tritacarne mediatico e social per aver usato la parola terroni in un titolo. Eppure, spiega il direttore editoriale de Il giornale, Barbuto è calabrese, reggina per la precisione, e si definisce terrona con orgoglio.
A questo punto anche chi scrive non può fare a meno di esprimere la propria solidarietà alla brava collega e conterranea. Anzi: conterrona.
Un rapido accenno all’obbligo – stigmatizzato alla grande da Feltri – di declinare tutto anche al femminile. Per chi scrive si può fare finché non genera cacofonie (avvocata va bene, assessora di meno, sindaca molto meno e si può dire la giudice, la magistrata o la pm, ma non la pubblica ministera, che sfiora l’orribile). In questo caso, l’estetica dovrebbe essere la bussola di ogni scelta: rovinare i suoni di una lingua in nome di pretesi diritti non ha comunque nulla di etico.
Invece, si concorda con Feltri per l’uso dei plurali: basta il maschile per indicare uomini e donne. Distinguere (signore e signori, dottoresse e dottori ecc.) non è grammatica ma cavalleria. La quale, anche a dispetto di certe neofemministe, è un obbligo che va oltre il linguaggio.
Il capolavoro vero Feltri lo fa con zingaro, che considera un aggettivo carico di significati nobili: amante della libertà, capace di sopravvivere sempre, persino romantico e via discorrendo. E, visto che c’è, prende in prestito un verbo dal dialetto calabrese, segnatamente cosentino: zingariare…
Come parlare non ce lo deve dire nessuno
Morale della favola: ognuno, ribadisce Feltri, scrive e parla come cacchio gli pare. Fatti salvi, va da sé, i limiti della decenza e delle buone creanze.
Fascisti della parola conferma sul grande giornalista bergamasco una cosa che sospettiamo in tanti: data l’età (anzi la vecchiaia) il Nostro perde parecchi colpi davanti alla telecamera ma sulla penna resta di imbattibile lucidità.
Chiusa l’ultima pagina di questo pamphlet, è quasi doveroso augurargli una grande, ulteriore longevità, innanzitutto professionale.
Già: questo gustosissimo pamphlet non è solo il divertissment di un vecchio. È un vero e proprio manuale di sopravvivenza, anche per giornalisti (o aspiranti tali) non disposti a soccombere ai luoghi comuni che prendono piede in troppe redazioni a dispetto del menefreghismo dei più.
Immaginatevi che sarebbe una società in cui i vari Boldrini e Zan potessero decidere quel che dobbiamo dire e come. Serve davvero un altro motivo in più per leggere Fascisti della parola?
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