Italiani per forza? Dino Messina dice no
Nel suo ultimo libro, l’ex caporedattore del Corriere della Sera smantella le tesi dei cosiddetti “revisionisti” antirisorgimentali e compie un’importante operazione verità sugli snodi più delicati dell’Unità nazionale
Una domanda retorica per iniziare: dopo dieci anni di dibattiti e polemiche, a volte di rara ferocia, c’era bisogno di un libro come Italiani per forza?
Visto che ci siamo, approfondiamo con un altro quesito: visto che in questi dieci anni – iniziati col successo editoriale di Terroni di Pino Aprile (2010) – il mondo accademico ha prodotto tantissimo per reagire al cosiddetto revisionismo antirisorgimentale, era necessario un altro volume divulgativo dedicato ai nodi irrisolti dell’Unità nazionale?
La risposta è sì, a tutt’e due gli interrogativi. Anzi: sembra quasi destino che toccasse a un giornalista chiudere il ciclo di polemiche e veleni inaugurato da un altro giornalista.
E che giornalista: l’autore di Italiani per forza, uscito da poco dai tipi di Solferino, è Dino Messina, firma storica e redattore di lungo corso del Corriere della Sera, specializzato da sempre in alta divulgazione storiografica (ne sanno qualcosa i suoi allievi dell’Università di Milano).
Raccontare la storia col metodo e il linguaggio giornalistici non è solo una questione di tecnica e di cultura ma soprattutto di sensibilità. E questa sensibilità deriva dalla consapevolezza che le vicende storiche, soprattutto quelle meno lontane o addirittura ancora troppo vicine, accendono passioni e risultano divisive, generando memorie di parte che a volte possono diventare pericolose per la loro faziosità.
Accade tuttora con le celebrazioni della Resistenza o le rievocazioni della tragedia dei profughi giuliano-dalmati, durante le quali si assiste a polemiche becere, condotte con modi e condite con espressioni degni dei peggiori club ultrà.
E accade con le vicende del Risorgimento, sulle quali si è tentata un’operazione (prima editoriale e poi politica) se possibile più grave: la creazione di una memoria artificiale, basata su una serie imponente di fake news (e non a caso alcuni storici hanno coniato al riguardo l’espressione fake history) e artatamente divisiva.
Proprio da questi brevi spunti si può cogliere il primo merito di Italiani per forza: la capacità di depotenziare l’impatto mediatico delle controstorie che hanno ammorbato una fetta non proprio piccola del dibattito pubblico meridionale più recente.
Il paragone con la Resistenza e le foibe non è casuale: Messina ha dato una prova superba delle sue attitudini in questi due nodi spinosi della memoria collettiva con i suoi C’eravamo tanto odiati (1997), in cui ha affermato nel mainstream la categoria della guerra civile con largo anticipo rispetto a Giampaolo Pansa, e il recente Italiani due volte (2019), in cui è riuscito a imbastire, unendo la ricerca sui documenti alle testimonianze dei superstiti e dei loro discendenti, un tentativo di memoria condivisa, finalmente sottratta al monopolio di parte, fazioso e divisivo come tutti i monopoli.
Siccome non c’è due senza tre, occorreva lo stesso metodo per ridare il giusto equilibrio alla narrazione storica del Risorgimento e restituire ai fatti (e alla loro interpretazione corretta) la doverosa centralità anche nell’attuale racconto mediatico.
Le difficoltà, stavolta, sono particolari: mancano le memorie vive dei reduci e la sovrabbondanza di letteratura e di documenti d’archivio (molti dei quali non adeguatamente utilizzati) non aiuta a far chiarezza.
Messina supera tuttavia questi ostacoli con grande facilità: dà voce ai protagonisti del nuovo dibattito culturale sul Risorgimento e sulla Questione Meridionale e ne confronta le tesi con grande acume ed equilibrio.
Ciò non vuol dire che l’autore non prenda posizione, cosa che tra l’altro sarebbe impossibile. Il sottotitolo di Italiani per forza, al riguardo, è tutto un programma: Le leggende contro l’Unità d’Italia che è ora di sfatare.
Il libro si divide idealmente in due parti. Nella prima, composta dai tre capitoli iniziali, Messina ricostruisce con una sintesi agile ed efficacissima la conquista del Sud in seguito all’impresa di Garibaldi.
Una forma di riduzionismo? Proprio no: il vero nodo dell’unificazione nazionale fu proprio il Mezzogiorno, per almeno due motivi.
Il primo è senz’altro politico, poiché il Regno delle Due Sicilie e quello di Sardegna erano gli unici Stati preunitari in grado di avere un protagonismo attivo (quindi anche a livello militare) sulla scena internazionale. Ovvio che la partita si giocasse tra i Savoia e i Borbone.
La dinamica degli avvenimenti ribadisce un concetto chiave: i Borbone – che avevano un forte potenziale diplomatico e una notevole forza militare – persero non solo per il loro arroccamento sul legittimismo ma anche e soprattutto per il loro neutralismo, che si tradusse in isolamento politico.
Il secondo motivo, legato al primo, è di natura sociale: la reticenza e l’incoerenza dei Borbone sulle riforme produsse un analogo isolamento della dinastia all’interno del Regno. La formula assolutista della monarchia amministrativa era diventata insufficiente a dare risposte non solo agli intellettuali (una minoranza tra l’altro prestigiosissima a livello europeo) ma anche al ceto medio nel suo complesso.
Proprio la disaffezione crescente verso la corona – che in Sicilia si tradusse in rivolta aperta e nel continente in una fronda in costante aumento fino alla rottura definitiva – spianò la strada all’impresa dei Mille prima e all’intervento sabaudo poi.
Sul punto Messina è chiarissimo: il suo non è un confronto tra dinastie regnanti ma tra classi dirigenti, di cui una – quella sabauda – inclusiva, proattiva e modernista, l’altra, quella napoletana, decisamente conservatrice e legata a una concezione che limitava il progresso alla tecnica e all’amministrazione.
Questa ricostruzione non è un semplice suntino ma il frutto dell’analisi di spunti forniti da storici di assoluto prestigio, come Eugenio Di Rienzo e Carmine Pinto.
La seconda parte di Italiani per forza contiene invece un fact checking corposo e articolatissimo dedicato agli argomenti forti del cosiddetto revisionismo antirisorgimentale.
Sono cose risapute, perciò ci limitiamo a un elenco sommario: la vicenda di Fenestrelle, il forte sabaudo diventato una sorta di Auschwitz nell’immaginario neoborbonico; la tragica storia di Pontelandolfo e Casalduni, episodio minore del brigantaggio e tuttavia paragonato da Aprile alla strage di Marzabotto; la storia mitizzata del brigantaggio – in particolare lucano e campano – e dei suoi protagonisti; i rapporti tra il nuovo Stato unitario e la criminalità organizzata, che fu decisamente più problematico rispetto alle tesi di chi si ostina a leggervi una specie di patto Sato-mafia avant la lettre.
In questo viaggio tra gli aspetti più problematici del Risorgimento Messina non è solo: gli fanno compagnia delle fonti di alto livello: oltre al menzionato Pinto, citiamo tra gli altri Alessandro Barbero e Juri Bossuto, Silvia Sonetti, Renata De Lorenzo, Gian Luca Fruci e Salvatore Lupo.
Una considerazione a parte meritano i due capitoli dedicati alla disparità tra Nord e Sud, anche perché è l’aspetto del problema che attualizza le polemiche sull’unificazione nazionale e definisce i contorni della Questione Meridionale.
Il fact checking di Messina, al riguardo, risulta molto efficace e approfondito e dà vita a un dibattito vivace tra gli intellettuali che hanno avuto il merito di rilanciare l’allarme sul Sud. Ed ecco che sulle pagine dense di questa parte del libro incrociano le armi Emanuele Felice (autore del fondamentale Perché il Sud è rimasto indietro) e Vittorio Daniele, economista calabrese (e autore in tale ruolo dell’ottimo Il Paese diviso). Ma intervengono anche Paolo Macry e Aurelio Musi, che lanciano sguardi profondi ai rapporti tra le due parti d’Italia.
Non manca, a conclusione del volume, una panoramica sugli ambienti revisionisti, che tentano di accreditarsi come meridionalisti tout court. Con grande imparzialità, l’autore dà voce a Gennaro De Crescenzo, il presidente del Movimento neoborbonico, e a Pino Aprile, il quale parla nelle vesti anche di leader del Movimento 24 agosto-Equità territoriale.
A voler tirare le somme, Italiani per forza è un libro che non si limita a divulgare tematiche e problemi molto sentiti al Sud, ma fa il punto su dieci anni di dibattito, di cui recupera gli aspetti più seri ma, per fortuna, esclude le degenerazioni più becere e caricaturali.
Non poteva essere diversamente per un giornalista di grande competenza come Messina, che tra l’altro è stato ispirato anche dalla propria origine lucana, cioè dall’appartenenza a un territorio in cui la memoria delle vicende risorgimentali è divisa ancora tra le celebrazioni dell’epopea garibaldina e la rilettura romantica e ribellista del brigantaggio.
Chiudiamo un’altra risposta alla domanda formulata in apertura: di un libro come Italiani per forza c’è bisogno anche per la sua onestà.
No, conclude Messina: nessuno ci ha costretti a essere italiani. Nessuno ha ingabbiato il Sud in un processo unitario non voluto e perciò disastroso. Nessuno ha rapinato o depauperato il Mezzogiorno dopo averne sterminato gli abitanti.
Siamo tutti italiani perché abbiamo voluto esserlo. E abbiamo continuato a essere italiani perché lo abbiamo voluto.
Per renderci conto di questo basta un’analisi sincera e spassionata. Come quella dell’ex caporedattore del Corrierone.
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Gentile Sig. Paletta
grazie per la segnalazione di questo nuovo libro sul Risorgimento, scritto da uno storico e non da un giornalaio in cerca di consensi e di vendite. Il sottotitolo la dice lunga su questo argomento, ma è giusto che se ne occupi anche personaggi del calibro di Messina e di Barbero (ricordo il suo libro sulla prigione Fenestrelle e la meticolosità nell’elencare i 23 nominativi dei prigionieri morti in quel periodo a fronte delle “migliaia” indicati dai neoborbonici) così come quello di Pinto. Mi permetto di aggiungere, a ricordare l’impegno dei meridionali per l’unità nazionale, che sarebbe il momento di fare una ricerca scrupolosa sui volontari, circa 2000, che nel 1848-49 lasciarono il sud per andare a combattere a Curtatone, Montanara e a Venezia. Sui garibaldini del 1860 e 1866, invece, è sufficiente fare una ricerca nell’Archivio di Stato di Torino per trovare i nominativi delle migliaia di volontari siciliani, calabresi, pugliesi, lucani, campani, abruzzesi e molisani (per restare in tema Meridione) che andarono a combattere con Garibaldi. Buona lettura e buona ricerca, un cordiale saluto
Egregio De Santis,
Giusto una precisazione: Dino Messina non è uno storico in senso stretto, ma un eccellente giornalista che si occupa molto bene di storia.
Per le ricerche a cui si riferisce, giriamo volentieri i suoi quesiti agli storici professionisti che ci seguono: chissà che qualcuno di loro non sia già all’opera…
Grazie per l’attenzione e un cordiale saluto a lei
Saverio Paletta