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L’affaire Pontelandolfo, dalla fake al mito

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La storica Silvia Sonetti ricostruisce nel suo recente libro la nascita del mito della strage del paese beneventano, un mito lanciato cinquant’anni fa dagli ambienti di certa sinistra e recuperato dai “revisionisti” neoborbonici. All’origine di tutto, il successo di una canzone degli Stormy Six

Non è il caso di rievocare Goebbels e Churchill, che da posizioni opposte dicevano la stessa cosa: una bugia ripetuta più volte diventa verità.

Per ribadire la validità di questo adagio non servono le teorizzazioni di uno dei padri più diabolici della comunicazione di massa né gli aforismi di un grande statista. Né occorrono spin doctor rotti a tutte le astuzie.

Gli Stormy Six in una foto d’epoca

A volte può bastare davvero di meno: alcuni scrittori militanti coccolati da un clima culturale favorevole, artisti pronti a recepirne gli stimoli e una classe politica desiderosa (e in grado) di approfittarne. Lo dimostra la genesi della leggenda nera della strage di Pontelandolfo.

Sull’argomento ha fatto il punto di recente Silvia Sonetti, storica e ricercatrice dell’Università di Salerno, nel suo recente L’affaire Pontelandolfo. La storia, la memoria, il mito (1861-2019) (Viella, Roma 2019), un saggio breve (176 pagine) ma corposo, che ricostruisce nel dettaglio l’episodio storico – tragico ma secondario nelle vicende del brigantaggio – e racconta con grande efficacia la trasfigurazione delle vicende storiche in mitologia contemporanea prima e ora postmoderna.

Iniziamo dall’aspetto più particolare: quello artistico.

Una scelta fatta anche dall’autrice, che inizia il terzo capitolo del libro, Il mito (pagg. 101-156), con un’intervista a Franco Fabbri, musicista e musicologo, noto soprattutto per essere stato il frontman e principale autore degli Stormy Syx, band di punta della scena underground milanese degli anni ’70.

La storica Silvia Sonetti

Il riferimento è Pontelandolfo, la hit del gruppo milanese, in bilico tra la canzone di protesta ispirata al folk americano e il progressive rock, allora molto in voga in Italia.

Questa scena musicale risentiva moltissimo del clima politico-culturale dell’epoca, in cui l’egemonia storica della sinistra era sottoposta a torsioni laceranti.

Era andata in crisi, soprattutto negli ambienti movimentisti giovanili e non, la visione operaista tipica soprattutto del Pci (che, nel frattempo, aveva iniziato a cambiare strategia e tentava il dialogo con la borghesia). Alla rottura dei movimentisti si affiancò la fascinazione per le subculture popolari e le forme di ribellismo.

Non poteva mancare, in tale contesto, il recupero della questione meridionale. O meglio, della particolare lettura del meridionalismo data da Gramsci e reinterpretata, a livello militante, da autori di rottura come Nicola Zitara e Aldo De Jaco.

Dalla tesi del Risorgimento tradito, tipica di molta analisi marxista, a quella del Risorgimento come jattura per il Sud il passo fu breve. E trovò una scorciatoia nella rilettura del brigantaggio, nella quale si saldarono la teoria del bandito sociale di Eric Hobsbawm e le tesi sul brigantaggio come lotta di classe avant la lettre sostenute sin dagli anni ’60 da storici di spessore come Franco Molfese.

La copertina di L’affaire Pontelandolfo

Questo mix tra subculture popolari, riscoperte anche a livello artistico-musicale, critica del Risorgimento e rivalutazione del brigantaggio fu la piattaforma che consentì il rilancio della vicenda di Pontelandolfo, che, ricorda Silvia Sonetti, era chiusa da quasi un secolo. Nella maniera più ingloriosa possibile, aggiungiamo noi: con il processo al capobrigante Cosimo Giordano, protagonista di primo piano del grande brigantaggio e leader delle bande che misero a ferro e fuoco il Beneventano nel 1861.

Il colpaccio non sarebbe potuto riuscire meglio agli Stormy Six, che lanciarono Pontelandolfo (e, con esso, l’album L’Unità) proprio nel momento in cui il recupero delle tradizioni popolari e della critica di certa sinistra al Risorgimento filtrava nel mainstream: per dirne una, nello stesso periodo in cui Florestano Vancini faceva il pieno di telespettatori in Rai col film Bronte, una coproduzione italo-jugoslava che metteva in discussione l’epopea garibaldina in Sicilia.

Sono solo canzonette, avrebbe cantato Edoardo Bennato alla fine dei ’70. Ma in quel decennio quelle canzonette le prendevano sul serio un po’ tutti, incluso suo fratello Eugenio, che nello stesso periodo avrebbe celebrato i briganti con il tormentone folk Briganti se more.

Le prese sul serio anche l’amministrazione di Pontelandolfo, guidata nel 1973 dal democristiano Giuseppe Perugini, che colse al balzo l’occasione offerta dalla hit degli Stormy Six per compiere un’operazione bizzarra ma efficace di lancio del proprio territorio.

Le coordinate della leggenda nera di Pontelandolfo nacquero allora sulla base di pochi, ma significativi elementi: la tragedia che colpì la comunità nel 1861; il tentativo di riscattare l’immagine del paese, al centro di fatti cruenti di brigantaggio; la volontà di sfruttare a livello politico la riscoperta di vicende antiche e ormai rimosse dalla memoria collettiva.

Quest’ultimo passaggio, sottolinea Silvia Sonetti, è fondamentale: non c’era nulla della vicenda di Pontelandolfo che non si sapesse già grazie all’impegno di validissimi storici locali, tra cui si cita Alfredo Zazo.

Franco Fabbri, il frontman degli Stormy Six

Si sapeva, ad esempio, il numero preciso delle vittime civili: 17, di cui 3 a opera dei briganti e 14 dovute alla repressione dei bersaglieri. Si sapeva, inoltre, che il numero maggiore di vittime lo avevano subito i militari, caduti nell’imboscata dei briganti di Giordano.

La tragedia di Pontelandolfo, in realtà, era di dominio pubblico sin dall’estate del 1861, come dimostra l’ottima ricostruzione della Sonetti, che ha ripescato negli archivi le testimonianze dei protagonisti, maggiori (i militari impegnati nella repressione del brigantaggio) e minori (gli operatori di pubblica sicurezza, ma anche le autorità civili e i comuni cittadini, notabili e non).

Ed erano note anche le polemiche che accompagnarono l’episodio: la propaganda costruita ad arte dagli scrittori di orientamento borbonico (Giacinto de’ Sivo su tutti) e il celebre dossier del deputato milanese Giuseppe Ferrari, oppositore della destra cavouriana, che accreditò per primo l’idea che Pontelandolfo e il vicino Casalduni fossero stati letteralmente spazzati via dalla repressione dei bersaglieri.

La dinamica dei fatti è la seguente: i briganti occupano Pontelandolfo il 10 agosto del 1860 provocandovi tre vittime e saccheggiando le proprietà dei notabili liberali datisi alla fuga; una pattuglia di 44 militari mandata in esplorazione cade in un’imboscata tesa dai briganti tra Pontelandolfo e Casalduni alla quale segue l’intervento, tra l’altro piuttosto scoordinato, di due reparti di bersaglieri accompagnati da un drappello di militi della Guardia Nazionale, che provoca la morte di 14 civili. Decessi tra l’altro documentati dagli archivi parrocchiali.

A sinistra nella foto, il capo brigante Cosimo Giordano

Però nei primi anni ’70 le cose cambiano, proprio grazie all’impatto di una canzone: quella storia, rimossa dalla memoria collettiva, riemerge quasi come se fosse un segreto tenuto nascosto a lungo e si trasforma. Soprattutto, si trasformano i protagonisti: i briganti non sono più dei criminali ma diventano, con un ritardo di oltre un secolo sulla vecchia propaganda borbonica, patrioti che difendono il territorio dai soprusi degli invasori piemontesi. Cambia, inoltre, il rapporto tra la comunità e le vicende storiche: il paese non fu vittima delle bande ma dei militari.

Protagonista di questa inversione non fu solo il sindaco Perugini, che inviò nel 1972 al Presidente della Repubblica Giovanni Leone una lettera con cui invocava giustizia per i torti storici subiti dalla sua comunità. Un ruolo di primo piano lo ebbe anche lo scrittore lucano Carlo Alianello, capofila di successo del cosiddetto revisionismo antirisorgimentale carico di nostalgie borboniche.

Alianello, infatti, fu l’ospite d’onore delle celebrazioni che si tenne a Pontelandolfo il 30 settembre del 1973.

In questo singolare laboratorio politico, allestito con innegabile scaltrezza politica dal sindaco e dalla sua amministrazione, si realizzò la fusione a caldo tra il borbonismo reazionario e parti dell’ultrasinistra gramsciana.

Carlo Alianello

Questa fusione si sarebbe ripetuta, in maniera anche più esplosiva, a partire dal 2010, quando l’affaire Pontelandolfo esce dalla nicchia locale e si diffonde nel mainstream della società digitale postideologica disintermediata dai social media.

La versione 2.0 del mito di Pontelandolfo presenta differenze notevoli rispetto all’originale. In comune c’è senz’altro la distorsione dei fatti storici per scopi politici. Ma questi scopi non riguardano più solo i territori interessati alle vicende e alla loro rilettura: toccano tutto un sistema istituzionale profondamente trasformato.

Non ci sono più le culture dominanti dei partiti di massa, che consideravano la questione meridionale un elemento dirimente. Inoltre, il sistema delle autonomie modificato a livello costituzionale a inizio decennio ha contribuito ad aumentare il divario tra le due parti d’Italia e ad accrescere il malessere del Sud.

Ed ecco che la critica al Risorgimento, tra l’altro espressa in maniera forte anche nella storiografia accademica, diventa altro: la contestazione sistematica dei motivi fondanti dell’Unità nazionale.

Pino Aprile

Purtroppo, c’è da aggiungere, si è abbassato anche il livello dei critici: al posto di Carlo Alianello c’è Pino Aprile e il dibattito sugli aspetti più tragici del processo di unificazione si sposta dal piano storiografico a quello giornalistico o, alla peggio, della comunicazione social. Gli epigoni di Molfese e De Jaco, purtroppo, sono Gennaro De Crescenzo, il presidente del Movimento neoborbonico, Costanzo Ciano, autore di un revisionismo a dir poco fantasioso, Lorenzo Del Boca, ex presidente dell’Ordine dei Giornalisti, vicino alla Lega nord bossiana e autore di vari libri antirisorgimentali e antisabaudi.

L’unico, tra questi autori, che risulta più a suo agio col metodo storiografico è Gigi Di Fiore, firma di punta de Il Mattino. Ma è davvero troppo poco perché, a proposito di questo filone letterario, si possa parlare di storia.

E Pontelandolfo, in tutto questo? La storia di questo mito sembra ripetersi in peggio: anche in questo caso gli storici veri hanno effettuato il loro bravo fact checking per tempo. Tra essi, padre Davide Fernando Panella, che sin dal 1998 ha effettuato importanti ricerche d’archivio che confermano la reale entità della repressione: 14 vittime civili tra i pontelandolfesi.

Il generale Cialdini e il suo Stato maggiore

Tutto inutile o quasi: sul web il mito della strage continua a impazzare coi numeri e nelle maniere più fantasiose. C’è chi parla di migliaia di morti e c’è chi usa paragoni inesistenti: ad esempio, Pino Aprile nel suo best seller Terroni (Piemme, Milano 2010) paragona le repressioni del brigantaggio ai rastrellamenti nazisti e, nello specifico, Pontelandolfo a Marzabotto e alle Fosse Ardeatine.

Ma non è sceso giù solo il livello del dibattito culturale: anche la classe politica fa la sua parte in questa corsa al ribasso. Ci si riferisce, in particolare, all’amministrazione pontelandolfese guidata all’inizio dello scorso decennio da Cosimo Testa, scomparso di recente, a cui fa da spin doctor l’addetto stampa Gabriele Palladino, convinto assertore delle tesi neoborboniche.

L’idea di ricavalcare il mito dell’eccidio paga: in occasione dei festeggiamenti per il 150esimo anniversario dell’Unità, l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato porge le scuse dello Stato alla piccola comunità sannita, che ottiene una visibilità spropositata, rispetto sia alla sua consistenza demografica (circa 3.500 abitanti) sia all’entità dell’episodio storico (che resta secondario nelle vicende del grande brigantaggio).

Lo scrittore Giancristiano Desiderio

Segno che, almeno in politica, le balle ancora funzionano.

C’è da dire che il libro di Silvia Sonetti è l’ultimo tentativo (riuscitissimo) in ordine cronologico di mettere un po’ d’ordine nella disinformazione creata ad arte e amplificata dalla rete sulla storia tragica del paese beneventano.

Preceduto di poco dalla valida operazione giornalistica di Giancristiano Desiderio (Pontelandolfo 1861, edito da Rubbettino nel 2019), L’affaire Pontelandolfo è un’importante operazione verità a cavallo tra storia e cronaca (al riguardo, il debunking operato dall’autrice sul dibattito culturale nato attorno al mito della strage potrebbe benissimo fare scuola a non pochi giornalisti) e tenta di riportare il racconto delle vicende legate al brigantaggio a una dimensione più civile.

Resta solo un passo: sottrarre queste memorie dolorose alle polemiche politiche e restituirle alla storia. Non è facile, ma libri come L’affaire Pontelandolfo sono ottimi antidoti alla tentazione di piegare la storia a usi impropri.

Ascoltiamo pure gli Stormy Six ed Eugenio Bennato, ma dopo aver letto questo libro prendiamoli un po’ meno sul serio.

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La recensione di Marco Vigna

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

Comments

There are 2 comments for this article
  1. Gentile Sig. Paletta
    leggo con piacere questo suo articolo sull’affaire Pontelandolfo, tramite il libro di Stefania Sonetti ed un altrettanto piacevole constatazione che gli storici, e giornalai politicanti, scrivano sull’argomento con l’attenzione e la ricerca come dovrebbe essere fatta. Il tutto però mi lascia l’amaro in bocca, vicende che mi coinvolgono personalmente mi fanno pensare ancora che ci si mostri sempre molto attenti a definire vittime o carnefici secondo una visione politica di comodo piuttosto che per una ricerca di verità. Così, come ricordava nell’articolo, a Bronte i garibaldini sono i carnefici di 4 innocenti vittime e si dimentica però il massacro di 7 cittadini antecedente a questo. Così a Pontelandolfo si parla di migliaia di vittime innocenti (anche se la ricerca scrupolosa di Padre Panella abbia riportato solo 14 vittime) e ci si dimentica dei 44 militari (di cui 4 carabinieri) uccisi, ma il termine “trucidati” è più esatto perchè fu impossibile ricomporne i cadaveri per una sepoltura degna di questo nome. Di queste altre “vittime” nessuno ne parla, non fa comodo, non porta consensi politici ne’ sponsor. Pochi giorni fa in Congo (a distanza di 60 anni dalla strage di Kindu) sono morti 2 italiani mentre facevano il proprio dovere, l’ambasciatore Attanasio ed il carabiniere Iacovacci. Magari gli verrà riconosciuta una medaglia e magari, tra 50 o 100 anni, una nuova fase revisionista passerà come uno tsunami e i loro nomi verranno dimenticati e si darò risalto al valore di chi ha saputo con grande coraggio ucciderli in un vile agguato! Dimenticheremo i nomi dei cittadini di Bronte, i nomi dei soldati/carabinieri di Pontelandolro, i 24 di San Giovanni Rotondo e di altri e per una politica di comodo faremo assurgere a eroi altri nomi?! Resto senza parole. Grazie per la serietà con cui affronta questi argomenti, un cordiale saluto.

    • Egregio Caetani,
      Non è colpa mia né, ovviamente, sua se in Italia continua una certa subcultura del ribellismo a tutti i costi che a volte si traduce in apologia dell’illegalità, come dimostra il perenne successo di certe tesi sul brigantaggio.
      Le dirò di più: sono convinto che certa “difesa” dei briganti abbia creato lo spazio in cui si è affermato il fascino delle mafie nelle subculture popolari.
      Speriamo solo che, col tempo e con un po’ di pazienza, certi indirizzi si ridimensionino.
      Noi facciamo la nostra parte: è poco, ma è tutto quel che possiamo.
      Grazie per l’attenzione
      Saverio Paletta

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