L’affaire Pontelandolfo, dalla storia (vera) al (falso) mito
La storica Silvia Sonetti fa il punto sul tragico episodio del “grande brigantaggio” col suo recente libro, in cui ricostruisce la vicenda nel dettaglio e sottopone a un debunking serrato le tante fake diffuse da oltre cinquant’anni da certi ambienti marxisti e riproposte di recente dai “revisionisti” antirisorgimentali
È uscito sulla fine del 2020 il saggio di Silvia Sonetti, L’affaire Pontelandolfo. La storia, la memoria, il mito (1861-2019) (Roma, Viella 2020) che propone un esame sistematico degli eventi di Pontelandolfo nell’agosto del 1861, sia nella loro vicenda storica, sia nella posteriore ricostruzione storiografica, giornalistica, pubblicistica o politica.
I fini dello studio sono inquadrabili dalla sua collocazione in una collana detta L’antidoto, che pubblica volumi che si prefiggono di confutare e smontare affabulazioni ed interpretazioni estranee alla ricerca scientifica, ma che malgrado ciò si sono diffuse e propalate nell’immaginario pubblico.
L’obiettivo del libro di Sonetti, intenzionalmente piuttosto breve (meno di duecento pagine) e scritto in maniera comprensibile anche ai profani di storia, ma corrispondente ai principi e criteri della buona storiografia, è quindi duplice: ricostruire le vicende di Pontelandolfo dell’agosto del ’61 nella loro realtà storica; decostruire le narrazioni deformanti ed erronee che si sono propagate nell’opinione pubblica.
La monografia si rivolge pertanto sia agli storici, sia a coloro che non abbiano preparazione nella disciplina, proponendosi di colmare un vuoto fra la produzione scientifica d’alto livello e la sua accessibilità all’uomo della strada.
La struttura del libro è semplice e lineare: una introduzione, tre capitoli ed una conclusione.
L’introduzione riassume i termini della questione ed i fini dell’autrice, spiegando che il ciclo di eventi di Pontelandolfo fu un episodio minore, se non minimo, nel contesto della crisi politica e militare dell’estate del 1861, per non parlare del brigantaggio postunitario o del Risorgimento.
I morti furono in tutto 58: 41 militari e 17 civili. Ma questa vicenda marginale è stata progressivamente e lentamente trasformata in un racconto dai tratti ideologici e narrativi specifici, e ha acquisito nell’immaginario collettivo caratteristiche e dinamiche sempre più lontane da quanto era realmente avvenuto e con l’acquisire un’importanza politica ed emotiva sproporzionata al rilievo storico effettivo.
Il primo capitolo, La storia, riporta tutte le fonti conosciute sui fatti di Pontelandolfo, le confronta fra di loro e conduce un paziente lavoro investigativo per rielaborare un quadro complessivo di quanto accaduto.
Pontelandolfo è tra gli episodi di brigantaggio maggiormente documentati, con un notevolissima abbondanza di fonti, ben conosciute e di differente tipologia, come quelle provenienti dall’Archivio di Stato di Napoli, dall’Archivio dello Stato maggiore dell’Esercito a Roma e dall’Archivio di Stato di Benevento, a cui si devono aggiungere quelli degli archivi parrocchiali, comunali e familiari della zona e, in ultimo, anche da fonti di differente natura, quali memorie, articoli di giornale e altro ancora.
Gli accadimenti sono pertanto accertati anche nei dettagli: l’intrico di contrasti di fazione, di parentela e tra individui che prepararono la sommossa di Pontelandolfo; i saccheggi, le estorsioni, gli incendi ed i 4 assassini (vittime furono Michelangelo Perugini, Agostino Vitale, Angelo Tedeschi e Libero d’Occhio) compiuti dai briganti ai danni dei pontelandolfesi; la strage dei militari dopo la loro resa; la fuga dei briganti all’arrivo del battaglione di bersaglieri; l’uccisione di 13 civili e l’incendio di alcuni edifici del paese.
Non vi fu alcun massacro indiscriminato della popolazione di Pontelandolfo. Tutti i dati posseduti e le testimonianze che consentono di calcolare il numero di morti civili per mano di militari sono inequivocabili: le vittime furono 13, totale sempre confermato dalle ricerche. Non vi furono né bambini uccisi né stupri.
I briganti e gli insorti furono incapaci di darsi un’organizzazione e un programma politico, ma si limitarono ad azioni violente e prevaricatorie nei confronti della stessa cittadinanza (come l’incendio degli archivi del municipio e della giudicatura, o il saccheggio di un magazzino, per non parlare delle estorsioni e ruberie ai danni degli abitanti, o degli omicidi). Dopo il massacro di militari inermi, che si erano arresi, all’arrivo di un intero battaglione i banditi si diedero alla fuga.
Il secondo capitolo, La memoria, è il più originale dell’opera di Sonetti perché ricompone la storia di ciò che accadde nei mesi e anni successivi nel territorio di Pontelandolfo e Casalduni in conseguenza degli eventi dell’agosto del ’61, ciò che fino a questo studio era stato praticamente trascurato.
Il mosaico finemente costruito, tessera per tessera, è la confutazione totale della mitologia borbonica. Le popolazioni di questi due paesi e degli altri del Sannio si opposero a mano armata alle bande di briganti, risultando spesso determinanti nello schiacciarle.
L’episodio più clamoroso si ebbe, ancora una volta, a Pontelandolfo, che il 21 dicembre fu di nuovo attaccato dalla banda di Cosimo Giordano. I pochi carabinieri presenti furono coadiuvati dalla cittadinanza: «L’intero paese prese le armi e respinse i briganti». I combattimenti contro le bande si accompagnarono alle retate di briganti e favoreggiatori.
Negli ultimi mesi del 1860, a Casalduni e fra gli applausi della popolazione furono arrestati 12 fra banditi e manutengoli, altri 60 briganti si consegnarono. A Pontelandolfo, 43 briganti si costituirono, consegnandosi al sindaco, altri 40 furono arrestati dai volontari civili della Guardia nazionale, mentre 7 furono uccisi dai contadini, che davano loro la caccia.
L’ostilità degli abitanti verso i briganti fu dovuta ad un complesso di fattori, fra cui il comportamento criminale dei banditi, che già durante l’assalto a Pontelandolfo dell’agosto del ’61 si erano dati a furti e ricatti e altre malefatte. Le autorità statali si preoccuparono sia di rintracciare e processare i responsabili di questi e altri crimini briganteschi, sia di aiutare i danneggiati con appositi fondi per risarcirli dei danni subiti dalle masnade. Il fallimento del brigantaggio fu politico prima ancora che militare, con la perdita del consenso delle popolazioni: «Le azioni degli insorgenti utilizzarono la bandiera borbonica per fare della guerriglia criminale uno strumento di risoluzione di conflitti locali, odi personali e rancori privati radicati da decenni sui territori e nelle comunità».
Il terzo capitolo, Il mito, rintraccia, appunto, la lunga genesi di una mitologia legata agli eventi di Pontelandolfo e si riallaccia a quanto riportato nel capitolo precedente sulle narrazioni diffusesi già nel 1861 e negli anni posteriori.
La creazione di una leggenda, tanto suggestiva a livello emotivo quanto infondata dal punto di vista storico, è frutto di «una paziente costruzione, più o meno consapevole, operata da attori diversi non necessariamente in contatto tra loro. Un’operazione diluita nel tempo, fatta di lavorii costanti, sovrapposizioni continue e spostamenti semantici progressivi. Tutti passaggi simultanei, ma spesso minimi nel loro impatto immediato, singolarmente quasi irrilevanti tanto da passare a volte inosservati».
Questa narrazione incomincia già nel secolo XIX per mano di propagandisti borbonici e di loro vere e proprie invenzioni, come Francesco Proto Carafa duca di Maddaloni e Giacinto de’ Sivo, e prosegue poi nel secondo dopoguerra sotto l’influsso di tutt’altra temperie politica e culturale, quella del marxismo e della sua interpretazione del brigantaggio, oggigiorno pressoché abbandonata dagli specialisti dopo una serie di serrate ed argomentate confutazioni.
La combinazione fra influenze e deformazioni provenienti dalla vecchia propaganda di guerra borbonica dell’Ottocento e dalla concezione del bandito sociale del marxismo novecentesco, paradossalmente due ideologie agli antipodi, è stata adottata a partire dalla fine del XX secolo da alcuni giornalisti e scrittori.
Si è avuta così una progressiva trasfigurazione della storia in mito: i 13 morti civili documentati per mano dei militari sono divenuti in questa letteratura prima centinaia, poi migliaia; i danni subiti all’abitato di Pontelandolfo nell’incendio sono stati moltiplicati sino a scrivere di un paese interamente distrutto, in contrasto con le fonti e con la stessa evidenza urbanistica; l’operato criminale dei briganti è sparito, con l’omissione delle moltissime violenze da loro esercitate sui civili meridionali; l’esercito italiano è stato definito immaginosamente ed erroneamente quale piemontese; nonostante l’abbondanza sui fatti dell’agosto del ’61 sia di fonti, tutte disponibili e consultabili, sia di un’amplissima pubblicistica e di molti studi storici, si è sostenuto contro ogni evidenza che si trattava di vicende tenute nascoste, con documenti segretati e su cui non si era mai scritto.
Tutto ciò, assieme a ulteriori componenti del mito, è stato elaboratoe in assenza di prove storiche ed in una matrice data dalla mescolanza d’iniziative politiche, articoli giornalistici, romanzi, blog, canzoni, libelli dai toni aggressivi e altro, il cui elemento comune è stato, solitamente anche se non sempre, la condivisione di una variegata ideologia meridionalistica, talora secessionista, talaltra autonomistica, comunque tesa alla rivendicazione. Invece, l’accademia e la storiografia in generale hanno rifiutato ogni validità a siffatti costrutti, perché privi di storicità.
La conclusione di Silvia Sonetti è che «il mito dell’eccidio, pur smentito da tutte le ricerche documentate e da ogni fonte archivistica, ha travalicato il limite dell’invenzione e si è trasformato in una storia vera» perché è divenuto a posteriori uno strumento di campagne politiche ed una bandiera da agitare per rivendicazioni aggressive, forme d’aggregazione localistica, ricerca di protagonismo da parte di singoli soggetti o gruppi.
La mancanza di storicità del mito ha incontrato il disinteresse di coloro che in esso si riconoscono, per un meccanismo psicologico che conduce a trascurare ciò che è vero in nome di ciò che piace, ossia il credere ad una finzione teatrale pur sapendo che essa è tale. Un compito della storiografia attuale, conclude Sonetti, è colmare «la distanza che esiste tra la ricostruzione documentata degli eventi e la loro rappresentazione emozionale», ossia sapersi rivolgere anche all’uomo della strada evitando la propagazione di forme di fantastoria.
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