Foto Straordinarie, gli scatti che hanno fatto la storia
Nella sua nuova graphic novel la misteriosa fumettista Elleni racconta le gesta dei fotoreporter che hanno inciso nell’immaginario contemporaneo
Diciamolo subito: Foto Straordinarie-La storia delle 30 fotografie che hanno cambiato il mondo (Beccogiallo, Padova 2020) si presenta ai lettori sotto forma di un paradosso, storico e concettuale.
Cos’altro potrebbe essere, in apparenza, un libro a fumetti che parla di foto? È come se il nonno, cioè l’immagine disegnata, raccontasse la vita del nipote. O come, per restare nel paragone, una creatura artificiale volesse ragionare su un prodotto – la fotografia, appunto – ideato per riprodurre il reale.
Eppure l’esperimento di Elleni, l’enigmatica fumettista autrice di questa bella graphic novel, è riuscito: le sue trenta storie, raccontate con uno disegno asciutto dal tratto essenziale arricchito da un uso minimale del colore, convincono e appassionano.
L’autrice (fresca tra l’altro dell’ottimo risultato del suo precedente Straordinarie uscito lo scorso anno) è piuttosto abile a schivare le insidie in cui si rischia di incappare quando sia ha a che fare con la storia del giornalismo: l’enfasi retorica o l’eccessivo didascalismo. La passione forte o l’aridità.
Elleni, semmai, fa leva sull’elemento comune tra disegno e fotografia: entrambi sono immagini che colgono (e quindi raccontano) un istante. E c’è da dire che quasi due secoli di fotografia e più di un secolo e mezzo di fotografia giornalistica ci ricordano che il ritratto, in apparenza passivo, di un obiettivo può essere più evocativo e potente del tratto dell’artista più ispirato.
Prendiamo un esempio, tratto dalla terza storia di Foto Straordinarie: il celebre scatto del mitico Robert Capa al miliziano morente, diventato il simbolo della Guerra civile spagnola più del celebratissimo Guernica di Picasso.
Ma, al pari del disegno, la fotografia richiede una sensibilità particolare. È il celebre occhio del fotografo, quello sguardo particolare che consente di cogliere l’attimo e di trasformarlo in racconto e, come nel caso citato di Capa, in icona.
Ciò vuol dire anche che la fotografia coincide con la storia personale dei fotografi. È il caso, per citare altri esempi presi dal libro di Elleni, di Joe O’Donnell, il fotoreporter che immortalò il bambino di Nagasaki, diventato un simbolo dell’atrocità della guerra nucleare.
O è il caso, celeberrimo di Alberto Korda, il fotografo cubano che trasformò il viso di Che Guevara in un simbolo della rivoluzione.
Se O’Donnell non fosse stato un inviato di guerra e Korda un focoso castrista non avremmo avuto queste immagini.
Stesso discorso per Margaret Bourke-White, la famosissima reporter d’assalto del Life, che immortalò Ghandi intento a lavorare all’arcolaio: solo una cacciatrice di scoop di questo livello, che aveva già un chilometraggio notevole alle spalle, poteva creare un simbolo visivo di tale potenza.
E che dire di un altro celebre corrispondente, Malcom Browne, che ritrasse a Saigon l’autodafè del monaco Tich Quang Educ, che si trasformò in torcia umana per protestare contro le angherie del governo di Ngo Dinh Diem?
Al riguardo, è quasi d’obbligo una divagazione: il suicidio in pubblica piazza di Educ fu il prototipo di altri gesti tragici, di cui il più celebre fu quello del ceco Ian Palach, che a sua volta ispirò altri imitatori nell’ex impero sovietico.
Non si può parlare di fotografia senza menzionare lo sport: senza lo scatto di Neil Lefer non avremmo l’icona di Muhammad Alì.
Fin qui alcune vicende classiche, in cui le fotografie sono riuscite a fare la differenza.
Ma, per citare a casi più recenti, cosa ne sarebbe stato della protesta di Tienamen, di cui oggi sembra essersi persa quasi ogni traccia storica, senza gli scatti di Jeff Widener e dei suoi colleghi?
E ancora: siamo davvero sicuri che la tragedia di Sarajevo sarebbe rimasta così a lungo nell’immaginario collettivo senza le immagini riprese da Mark H. Milstein?
Infine: siamo davvero sicuri che ci sia un’immagine più potente della fuga del soldato Hans Conrad da Berlino Est, rubata da Peter Leibing, per raccontare il malessere dei cittadini della ex Ddr?
E potremmo continuare a lungo.
Ma il vero messaggio di questa graphic novel si coglie solo dalla lettura diretta. Ed è un messaggio importante soprattutto oggi, che l’espansione prodigiosa del web sembra aver messo in crisi il monopolio dell’informazione, gestito fino a qualche anno fa in maniera gelosa da giornalisti e fotoreporter: non conta l’immagine in sé, che ormai chiunque può produrre, ma il suo uso e la sua capacità di raccontare il contesto. E conta, nei casi migliori, la sua capacità di astrarsi dal contesto per diventare un simbolo: di gioia, di violenza, di dolore.
L’occhio del fotografo resta davvero insostituibile e prescinde dalle tecnologie. Anche nell’epoca in cui Instagram ci bombarda di immagini di ogni tipo restano pochi gli scatti capaci di raccontare una storia e, attraverso essa, di toccare la Storia.
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